LA CONCA DEL CAPO DI LA’
L’area collinare arginata ad occidente dal Monte Comunale e ad oriente dal Monte di S. Gottardo, che si dilunga da Strabuseno alle Cengie e che fa da anfiteatro alla pianura di Brendola, e’ chiamata Capo di Là (dialett. “Cao de Là”) ed e’ composta da contrade dai toponimi non ancora respinti dalla civiltà del benessere: Guarenti, Colombara, Costa, Gazzolo, Scaranto, Maraschion, Grotte, Monterosso, Molini e S. Valentino.
Il comprensorio, formato da una serie di falsopiani che degradano a tratti con dolcezza, altri ripidamente, fino a perdersi nella pianura di Brendola, e’ inciso più o meno profondamente da vallecole percorse da acqua a regime torrentizio, acqua preziosa, fresca, limpida, viva, usata con amore, che sgorga dalle sorgenti d’altura e percorre scaranti dal nome dialettale di:
“Palma” che partendo da sotto il Passo di Strabuseno va a confluire, passata Contrà Molini, nella Degora;
“Fontanafredda” che inizia il suo breve tragitto dalla proprietà di “Pippo” Bisognin e va ad alimentare diversi lavandari;
“Scaranton” che comincia da Casa Bon al Maraschion e s’immette nello Scaranto Palma dopo Contrà Molini;
“Scaranto della Bocara”, infine, che intraprende il suo corso da sotto il Mottolo di S. Gottardo e divide il Capo di Là dalle Cengie, il Castenile e la Costa di S. Vito.
Il fenomeno di antropizzazione e’ più marcato ai piedi del rilievo, laddove si trova 1′ insediamento abitativo di S. Valentino, dal quale diparte la rete viaria che congiunge le varie contrade. Qui 1′ uomo da secoli ha fatto suo il territorio, rubando terreno al bosco, sfruttando le risorse naturali presenti con grande rispetto per la terra, le piante e gli animali, avendo nel petto e nella testa la consapevolezza che la collina era fonte di vita per se’, la sua famiglia e la comunità’ cui era legato.
Le modificazioni dell’ambiente da naturale ad antropico erano lente e motivate dalle primarie esigenze dell’esistere; cosi’ si manteneva uno stabile equilibrio col territorio, regolato pertanto da uno stretto rapporto di reciproca convivenza.
Anche se toccato marginalmente dall’inserimento di nuove costruzioni il Capo di Là contiene un patrimonio rurale, forse minore sotto certi aspetti, ma non per questo meno importante, costruito con le tecniche, le conoscenze e soprattutto con i materiali del luogo ed adattato alla esigenze delle genti che qui scelsero di vivere.
I mutamenti sociali avvenuti in questi ultimi decenni, che hanno condotto 1′ uomo ad allontanarsi, seppur parzialmente, dalla terra non hanno portato questi luoghi al degrado abitativo che si riscontra in altre aree beriche: la gente laboriosa, parca, ospitale, con tanta voglia di vivere e fare, sebbene impiegata nell’industria o nei servizi non ha abbandonato i casolari e le contrade, magari ha riattato le abitazioni agli odierni modi di vita, ma nel dopo lavoro ha continuato a coltivare la terra, preservandola dall’inselvatichimento. Il territorio e’ per la maggior parte destinato all’agricoltura: nei pianori e nei lievi declivi domina il vitigno ed il prato stabile, ma non mancano le moderne colture del mais e della soia. La mitezza del clima (il sito e’ protetto a nord dai colli) ne ha fatto luogo eccellente per la produzione vitivinicola sin dall’antichità’.
La grande gelata del 1929 ha fatto morire tutte le specie autoctone, già’ intaccate da diffuse malattie. Da allora per il reimpianto e’ stato usato 1′ innesto impiegando come “soggetto” varietà’ americane resistenti e come “marza” varietà’ europee; nel pianoro del Monterosso si sono salvate alcune varietà’ indigene dai nomi desueti quali la corbina, la cavrara, la moscata, la regina e 1′ ussolaro, piante che una azienda sorta recentemente in località Guarenti ha riscoperto e rivalutato.
L’ambiente boschivo, situato ai margini dell’altopiano carsico di Perarolo e S. Gottardo ed a fianco delle incisioni profonde degli scaranti, e’ interessato dalla presenza del castagno, del nocciolo, del carpino, dell’orniello, del sambuco e della robinia.
Nel sottobosco e nelle radure crescono vari fiori tra i quali si evidenziano le rare e protette orchidee , le peonie selvatiche, il giglio rosso;la macchia erbacea ed arbustiva e’ composta dallo scotano, dal pungitopo, dall’ aglietto ed asparago selvatici; nell’ambiente rupestre dimorano 1′ albero di Giuda, il ginepro, le felci, 1′ edera, la capelvenere, le sassifraghe, il muschio ed i licheni.
Numerosi sono gli animali presenti, anche se non osservabili direttamente:
fra i mammiferi fanno da padrone la volpe, la faina e la talpa; tra i rettili ed anfibi la vipera che ama zone rocciose soleggiate vicine ad ambienti umidi, la salamandra, la rana verde, il rospo comune, il biacco, il ramarro, il colubro; nel cielo volteggiano il gheppio, la poiana, la ghiandaia , il passero, il merlo, la beccaccia.
Dall’incrocio di S. Valentino diparte via Costa, ora Piave, ad aggredire 1′ erto crinale e , percorso qualche centinaio di metri , la strada sfiora il barbacane che sostiene il muro posteriore di casa Zaccaria, fatto in parte da sasso faccia a vista ed in parte da intonaco colorato rosso vino; un portale ad arco pieno, contornato da un toro in pietra dalle forti bugne, porta attraverso il portico a tre archi ribassati nel cortile prospiciente la facciata principale della fattoria. Proseguendo il cammino, dopo un po’ si attraversa contrà Costa, tipico esempio di aggregazione abitativa collinare formato sia da gruppi di case allineate lungo la via, sia da nuclei variamente accostati a formare piccoli cortili. Dopo la contrada il percorso lascia via Piave per svoltare a sinistra per via Pasubio; un antico, splendido ed ancor funzionante lavatoio ci preannuncia la corte Castegnero, che si apre subito a destra. Il fabbricato, un tempo isolato, sperduto in mezzo ai coltivi, e’ ubicato ai margini della proprietà’ ed e’ composto dalla parte padronale, intonacata di recente e volta a guardare il sole di mezzogiorno, e a destra, un attimo rientranti, dalla casa per la servitù’, dalla stalla e dal portico. La costruzione da attribuire alla mano di un buon capomastro risale al 1771, come si può’ evincere dal millesimo inserito sopra il poggiolo su strada, ora parzialmente murato. L’abitazione, edificata con mura di sassi e malta e con 1′ uso della pietra bianca per le soglie, davanzali e cornici, non ha subito apparentemente sostanziali modifiche ed e’ costituita dal piano terra adibito ad uso giorno, dal primo piano ad uso notte e dal granaio. Il prospetto composito, che si impone per 1′ armonia delle spaziature e le porte ed il poggiolo ad arco a tutto sesto con chiave di volta, mostra un modo di costruire inusitato per una fattoria di collina e fa risalire quindi 1′ origine ad un certo prestigio. Degna di nota e’ la nicchia pensile in pietra rettangolare, posta a rompere la monotonia dello spigolo sinistro, rimasta per lunghi anni vuota e che adesso contiene 1′ immagine della Madonna: il manufatto e’ 1′ unico esempio del genere in tutta 1′ area berica. Con probabilità la fattoria e’ stata costruita dalla famiglia Castegnero che, a memoria d’uomo, ha qui sempre abitato. Al termine di via Monterosso una biforcazione conduce a sinistra alle Grotte (via Postumia) e a destra via dei Gazzi, ora Foscolo; quest’ultima porta al poggio sul quale domina 1′ antico convento denominato erroneamente “antica corte grande benedettina”: “Corte Piccola e Corte Grande” erano toponimi dati durante il periodo longobardo ai luoghi ove si esercitava il potere dell’ordine militare, giudiziario ed amministrativo, quella “grande” era la sede del gastaldo e ad essa facevano capo quelle “piccole” che avevano sede nei “vici”; la corte piccola era situata vicino alla chiesa della Madonna dei Prati, quella grande lungo la strada delle Asse che porta al Vo’. I Benedettini, giunti qui nell’ottavo secolo, costruirono un convento adibendolo a sede del loro ordine in dipendenza da S. Felice di Vicenza e lo tennero fino al 1806 quando con 1′ arrivo di Napoleone Bonaparte vennero soppressi gli ordini religiosi e confiscati i loro beni. Di quell’antico convento poco ora resta se non un’aggregazione di stanze e corridoi e la campanella a vela posta nella sommità del tetto. Divenuto dimora patrizia (dapprima dei Valmarana, poi Cita, quindi De Bortoli ed ora Targon) ha subito evidenti storpiature e rifacimenti, ma a testimonianza ci ha lasciato una impensabile, splendida loggia sovrapposta, parzialmente chiusa, con una balaustra in pietra di ottima fattura, che non ha altri eguali nel Vicentino.
Ritornando verso S. Valentino c’è una fetta di terra ad angolo che separa 1′ inizio di via Costa (Piave, da via S. Valentino, ora di proprietà della famiglia Zaccaria, quasi di fronte alla casa Pillon, sorgeva un giorno la chiesetta campestre dedicata a S. Francesco, impropriamente detta “Capitello” e di seguito S. Valentino.
Della costruzione non esiste più traccia se non nella memoria di qualche persona anziana del luogo, che rammenta qualche rudere di fondamenta; la tradizione orale vuole però attribuirle la campanella ora posta nel cimitero del capoluogo.
(E’ doveroso dire che lo storico Don Mario Dalla Via, parroco di Madonna dei Prati, ritiene fosse situata in altro luogo, vicino a dove si trova 1′ attuale capitello di via Monterosso).
Molte sono le notizie che ne comprovano 1′ esistenza: informazioni rilevate da strumenti notarili, mappe catastali, note di iscrizione ipotecaria, documenti dell’archivio parrocchiale di S. Michele, libri su Brendola scritti dagli abati Maccà e Morsolin nel secolo scorso.
Nel 1626 dove si trovava un preesistente capitello fu innalzata la chiesetta intitolata a S. Francesco per opera di Francesco fu Gilberto della nobile famiglia Cavalcabò, proprietaria di terreni in questi luoghi: “havendo questo commun al Cao di Là un loco nominato capitello, nel quale già molto tempo si diceva la Santa Messa che hora è profanato e distrutto e per cadere a terra se non di novo viene fabricato con gran dispendio, se bene dallo stesso commun gli sono state fatte molte spese in diversi tempi del quale io Francesco Cavalcabò con ogni istantia supplico esserne investito…Con istromento del 21 settembre dello stesso anno, stipulato in Brendola dal nodaro Orazio Chiarelli, la Fabbriceria della Chiesa Parrocchiale di S. Michele investiva di livello perpetuo Francesco Cavalcabò, con 1′ obbligo per se e per gli eredi di corrispondere una libbra di cera bianca veneziana ogni anno nel giorno della Pasqua di Resurrezzione, per essere consegnata alla fraglia del Santissimo Corpo di Cristo, inoltre, 12 troni per la conservazione degli arredi e 6 ducati ai parroci di detta Chiesa di S. Michele. Il Maccà nella sua Storia del Territorio Vicentino (Toma V) attesta che sull’architrave in pietra della porta era inciso:
D.0.M.
SANCTOQUE FRANCISCO FRANCISCUS DE CAVALCAOBUS
DICAVIT AN. D. MDCXXVI.
Per questo legato dovevano essere celebrate ogni anno nella chiesetta 18 messe in suffragio dell’anima di Francesco Cavalcabò e cioè una ogni primo giorno del mese o, se impedito, nel primo giorno libero e nei due giorni di S. Francesco, di S. Lucia e di S. Valentino Nel 1634 morì Francesco Cavalcabò che lasciò, come innanzi detto, gli oneri ai suoi successori. Nel 1735 Federicò Cavalcabò, su insistenti pressioni dell’arciprete di S. Michele di Brendola Luca Ferro, rinnovò il tetto della chiesetta oramai crollante. Dai verbali delle visite pastorali si rilevano altre notizie: in quella del 1664 si dice che ha bisogno di una nuova pala in quanto quella intitolata a S.. Caterina risulta deteriorata e che è stata collocata una campana; nel 1745. la proprietà risulta passata ai Ronzoni e si dice che ha un campaniletto con un’unica campana; in quella del 1770 la proprietà è passata ai Monza-Cavalcabò e nel 1791 viene nominata per la prima volta “chiesetta di S.. Valentino” ed è degli eredi Battilana-Ronzoni-Massari. Nella mappa di avviso del Comune di Brendola del 1809 e nel relativo Sommarione, al mappale 1126 risulta che 1′ oratorio intitolato a S.. Valentino, sito in contrà Monterosso su terreno in collina non coltivato, era intestato a Marzari Giò fu Francesco; nel 1828 passò a Battilana Domenico fu Francesco da Verona e a Mussolin prete Marco da Allonte, nel 1829 a Vettorazzo prete Giuseppe, prete Luigi e Giovanni fratelli fu Francesco.
Con istrumento del 26 giugno 1682 il livello fu acquistato da Bolzon Maria e Caldonazzo Domenico, coniugi Nel frattempo 1′ oratorio campestre, divenuto fatiscente, crollò al suolo e le sue pietre servirono a costruire masiere e murazzi; gli oneri si dovettero allora soddisfare nella chiesa di S. Michele e le messe del legato furono dapprima ridotte a 16 e dal 1888 a 11.Per successione ereditaria il terreno ed il relativo livello continuarono a tramandarsi fra i componenti della famiglia Caldonazzo e dal 1932 al 1947 alle Sorelle Caldonazzo fu Giacomo con le quali, come risulta dal Libro Scodarolo dei Livelli e Legati della Prebenda di S. Michele cessò il pagamento del legato Cavalcabò Francesco, primo proprietario della chiesetta di S. Francesco al Capo di Là.
La conca del Capo di Là delimita il Palù, 1′ antica palude formata dalle acque degli scaranti e da quelle “perse” dal Fiumicello Brendola durante le frequenti rotte, acque trattenute dalla “rosta” (tratto di terre elevate) che congiunge il Vò all’unghia del colle di S.. Vito passando per il Castenile dei Ponticelli, alta più di due metri rispetto la piana di S.Valentino a causa dei depositi di materiale alluvionale proveniente dai torrenti Alpone e Agno-Guà.
L’esistenza di quest’ area paludosa è nota sin dai tempi del Medio Evo, ma già da molto prima i centurioni romani avevano iniziato a bonificarla. Prima dell’anno 1000, nel secolo VIII, i monaci benedettini nella loro opera di colonizzazione a costeggiar antiche strade si stabilirono nell’attuale fattoria Targon e cominciarono a prosciugare il Palù con la costruzione di rogge, le Degore, lasciando cosi’ emergere terre fertili, ricche di torba.
Nei Libri dei Feudi del 1200 si trovano molte notizie sulla palude,
all’epoca di proprietà del Vescovo di Vicenza al quale i pescatori dovevano portare il primo giorno di quaresima 140 grossi gamberi (centun et quadraginta gambaros grossos); nel 1256 troviamo scritto in lingua tardo-latina: in laco scuro apud fratam (= nello scuro lago presso i frati), in laco de Taiano (= nel lago di Taiano), in hora apud paludem (= presso la palude), in hora pede paludis (= ai piedi della palude), apud degora de brasula (= preso la degora di brasola), in contrata degore alture (= nella contrada alta della degora, 1′ attuale S. Valentino, ndr.); nel 1288 in ora degore a ponte (= presso il ponte sulla degora, 1′ attuale ponte in località Ponticelli, ndr.), contrata aque degore que est infra Sanctum Vitum et villam Brendule (= la contrada vicina all’ acqua della degora che sta tra S.. Vito e Brendo la).
Con 1′ avvento del dominio della Serenissima Repubblica iniziò il recupero di quel terreni vegri od interessati da fenomeni di ristagno delle acque e di impaludamento nelle aree più basse; Venezia, perduti i ricchi mercati d’Oriente a seguito della scoperta dell’America, cercò ricchezza all’interno del suo territorio di terraferma concedendo ai suoi nobili questi terreni affinché venissero bonificati e resi produttivi per mezzo dell’imbrigliamento delle acque in profondi alvei; le domande per l’acquisizione delle terre e per 1′ uso delle acque erano trasmesse al competente Magistero del Beni Inculti ed erano corredate da mappe e disegni dai quali si possono “leggere” le varie modifiche del territorio avvenute attraverso gli anni: famosa è la carta-mappa del 1558 fatta su richiesta del nobili Malipiero, grande tutta una parete e che si trova alla Biblioteca Marciana di Venezia, nella quale sono evidenziate tutte le sorgive, scaranti, rogge, fiumi del comprensorio Agno-Guà e Brendola fino a Cologna Veneta, per poter irrigare terre destinate a risaia .Nei Balanzoni del 1544 si trovano parecchi accenni alla palude e alla contrà di S. Valentino: in contrà del laguselo, in contrà del palù, in contrà del lago, in contrà de pe de palù.Il 17 ottobre 1622 il Comune di Brendola, proprietario della palude, presenta domanda al Provveditore dei Beni Inculti per scavare uno scoladore e prosciugare cosi’ la palude ed il 15 febbraio 1623 produce una mappa fatta da Panatta Iseppo e Zambattista nella quale sono citati quali interessati anche i monaci di S.. Benedetto ed altri particolari; vi son segnati anche i canali fatti per deviare le acque affinché non entrino nella palude (degore su terreni medi) e il collettore (scolador) da allungarsi. Ma G. Batta Valmarana si oppone alla concessione ritenendo di essere danneggiato da simile sistemazione. Viene redatta una nuova mappa il 21 ottobre 1625. da Ercole Peretti e Michelangelo Borizzo su richiesta dello stesso G. Batta Valmarana e per mandato dei Provveditori. Essa riprende la precedente raffigurazione, segnando però, oltre ai monti che scolano nella palude, anche le risaie Valmarana situate nella zona occidentale delle Cavecchie. Ma su insistenza e su parere favorevole all’addetto fiscale nel 1627 il Comune ottiene di fare il canale collettore in tutto e per tutto come nella supplica di cui alla mappa del 1622.Il 26 agosto 1683 le Madri di S.. Rocco e S. Teresa (Teresine) chiedono di essere investite (investitura presume possesso, non proprietà) delle acque della fontana che scende dal molino (quello di Contrà Molini) valutata circa 3 once e di lasciarla scorrere nella Degora del Palù dei Bodignoni, che avevano acquistato dal Comune terreni nel Palù ancora nel 1658, fino al punto in cui questo scolo rientra nella investitura dei Valmarana; qui intendevano estrarle e farle proseguire in un fosso ai lati della strada fino ai 36 campi posti tra la Degora Valmarana e la strada della Pila per poterli trasformare in risaia.(Quanto sopra è una piccola relazione di due fra le centinaia di disegni che si trovano, come innanzi detto, nell’archivio della Biblioteca Marciana di Venezia).La palude, per finire, che per millenni, a partire dai Paleoveneti, dei quali sono state rinvenute piroghe e utensili domestici durante lo scavo della torba effettuato negli anni trenta, che ha dato origine all’attuale laghetto di Brendola, aveva beneficiato intere generazioni venne definitivamente prosciugata agli albori di questo secolo per opera della famiglia Rossi di Vò.
L’itinerario proposto, che può avere diverse varianti, dà la possibilità di conoscere in maniera approfondita i molteplici aspetti della conca del Capo di Là ed ha inizio dal suo cuore:
Contrà Molini, il cui toponimo deriva dalla presenza in questo sito di un molino, citato nei documenti sin dal 1500 col nome di “Molinello”, servito dall’ acqua dell’ attuale Scaranton. Negli atti del 1249, attestanti i possedimenti in Brendola del Vescovo di Vicenza si attesta che vicino alla contrada c’ è lo Scaranto Mazabò e si presume che possa trattarsi del nostro Scaranton o dello scaranto Palma.
La contrà Molini è composta da un gruppo di case il cui nucleo originale – casa Faccio – è databile intorno al 1500, mentre le case Menon, Bertocco e quella vecchia dei Lovato sono del 1700.
Appare qui evidente la tipologia costruttiva berica: ad una singola abitazione sono state attaccate delle altre1 i tetti sono a due falde spioventi, quasi tutti i sottotetti hanno le tavelline decorate per dar maggior lustro alla costruzione, le aperture sono piccole e contornate da pietra, di sicuro avevano in comune la casara ed il forno andati distrutti ed il lavandaro che ancor oggi si vede, alimentato dal suddetto Scaranton.
Attraversata la contrà inizia in costante salita la strada sterrata, cementata nei punti di più alto dislivello e si passa tra i coltivi a rasentar corti contadine adattate alla pendenza del terreno, fra queste quella delle famiglie Maran – Nicolato, posta ai limiti dello scaranto, la cui acqua per mezzo di una deviazione serve un bel lavandaro; la casa ha inoltre nella facciata un curioso medaglione in ceramica dipinta, del diametro di circa 40 cm., che raffigura in rilievo la Sacra Famiglia incorniciata da festoni di frutta.
Ben presto si raggiunge la strada asfaltata in contrà Gazzolo, principalmente formata dal lungo edificio rurale dei Bisognin.
Voltando le spalle al monte si ha la visione completa di tutta la conca: a destra il crinale che dalla Rocca dei Vescovi va perdersi nell’argenteo Fiumicello al Vò, a sinistra quello che dal Castenile e la Costa di S. Vito termina ai Ponticelli;
appare evidente 1′ arginatura che nella strozzatura tra il Vò e i Ponticelli bloccava le acque perse del Fiumicello e delle sorgive d’altura che formavano la palude, che ora si mostra appariscente giardino squadrettato, dipinto dalle variate gradazioni del verde e del marron.
Tutt’intorno il terreno è coltivato, spesso a vitigno, ma in qualche pezza appena arata spuntano, mal interrate, stoppie di granoturco i cui frutti gialli, inseriti in file parallele sull’asse del tutolo (dialet. torso o torsolo), previa molinatura, producono ancora la polenta, cibo vecchio come il mondo, adoperato dall’ Homo Abilis già nell’ Età del Fuoco, quasi da sempre unico alimento, associato a tenui quantità di derivati del latte, oppure ad erbe o fagioli, per le nostre genti venete (Veneti = polentoni) fino a qualche decennio fa.
La ripetizione alimentare – mangiar solo ed esclusivamente polenta – ha provocato tantissimi casi di pellagra, una malattia che compariva dapprima sulla pelle dipingendola di macchie brunastre, poi spingeva il soggetto colpito alla malinconia, al deperimento e molto spesso alla demenza ed in casi estremi al suicidio per annegamento: ci son voluti molti anni prima di comprendere che la pellagra era solamente una conseguenza di una mancanza di vitamine, per questo, in luoghi dove esisteva la miseria più nera, veniva dispensato gratuitamente il sale per compensare 1′ estremo tenore nutrizionale.
Dopo secoli, per fortuna, la “coltura della polenta” è pressoché scomparsa: i chicchi di mais vengono adoperati per lo più per integrare mangimi e la polenta, gustata con grande varietà di carni ed erbe sia nelle case che nelle tipiche trattorie, si e” tramutata in cibo per palati fini, divenendo cosi’ “polenta salata”.
L’asfalto prosegue fra prati e viti in lieve salita ed appena sorpassato un complesso agrituristico si tramuta in una viuzza bianca fino alle case Cogollo, ora Tadiotto: quella a destra conserva nella parete su strada una nicchia ogivale in pietra contenente 1′ immagine della Sacra Famiglia in stampa protetta da vetro, a sinistra una costruzione diroccata è stata riattata di recente a seconda abitazione da un professionista di Vicenza che ne ha voluto conservare 1′ originario aspetto, con la pietra tenera a contornare la spaziatura dei fori e dell’arco del portico a sesto ribassato con chiave di volta.
Il dominio visivo ora è pressoché totale e lo sguardo può spaziare dal Pasubio, al Carega, al Baldo ed in basso sulla città di Verona, dopo il colle della Favorita di Monticello di Fara e la ciminiera delle vetrerie di Almisano che disperde nel cielo pennacchi di grigio fumo; nelle giornate di marzo, quando dopo la pioggia 1′ aria diviene più tersa, sul pelo dell’orizzonte si possono intravedere gli Appennini di Modena.
Da casa Tadiotto, fatto un centinaio di passi, la carrareccia si insinua fra gli umori e colori del fitto bosco ceduo, dove tutto è permeato dal silenzio: robinie, noccioli, carpini, sambuchi e castagni vengono incontro e coprono il sentiero di un manto verde che all’improvviso si apre per lasciar intravedere suggestivi scorci del territorio brendolano.
Un’aria tiepida nella stagione invernale e fresca, frizzante in quella estiva preannuncia 1′ antica cava (dialet. priara) di pietra tenera. Una galleria porta all’interno, in uno slargo a cielo aperto che lascia penetrare la luce del giorno; da li’ dipartono numerosi cunicoli bui che mostrano, all’inizio, le impronte lasciate dai colpi di piccone e le cicatrici del distacco dei blocchi dalle pareti e dal soffitto. I blocchi, pesanti fino a cento quintali e di alcuni metri cubi di volume, venivano scavati, secondo tradizioni antiche, praticando nelle pareti quattro solchi profondi, due verticali e due orizzontali, il blocco rimaneva cosi’ attaccato alla matrice con la parte posteriore, inaccessibile, ed allora mediante 1′ applicazione di cunei nella fessura orizzontale superiore si procedeva al suo distacco. Con leve, rulli ed altra attrezzatura, il blocco veniva portato sino all’uscita per essere caricato su di un carro o fatto scivolare a valle lungo un’apposita slittovia e da qui partiva per laboratori degli scalpellini locali o per cantieri lontani.
Ora la priara di Brendola è inattiva, ma è stata sfruttata per centinaia di anni, ha fornito materia prima per chiese, case patrizie e contadine.
In San Felice di Vicenza esiste un contratto del 14 dicembre 1738 con il quale il “cellerario” del monastero dei SS. Felice e Fortunato di Vicenza don Antonio Felice Trissino commissionava ad alcuni umili cavatori di pietra di Brendola, tali Girolamo Bedin fu Cristoforo, Giovanni Caldonazzo, Battista Battocchio fu Pietro, di estrarre dalla priara sgorgata di Brendola le pietre per la costruzione del monastero (si sarà trattato di un restauro dato che il monastero esisteva già da molto tempo prima, ndr.).
Lasciato il polveroso e stridente biancore della priara, la capezzagna scende destrorsa finché, abbandonato il bosco, non incontra la via sterrata del Maraschion, toponimo derivante dalla presenza in loco di abbondanti piante di ciliegio selvatico (marasche).
Sulla destra , una vasca di raccolta, costruita dal Comune di Brendola nel 1960, riceve 1′ acqua della Proetta, una sorgente di origine carsica che si sviluppa in un cunicolo lungo oltre venticinque metri nella roccia calcarea; da qui 1′ acqua va a rifornire le abitazioni del sottostante Monterosso (toponimo che deriva dalla composizione rossastra del suo terreno e citato nei documenti fin dal 1249) e della contrada delle Grotte, cosi’ denominata per la presenza di quattro anfratti rocciosi, il maggiore dei quali ha una espansione di circa venti metri per sette.
Per ringraziamento le famiglie delle due contrade hanno posto sulla parete a monte del manufatto 1′ immagine in ceramica colorata della Madonna col Bambino.
Appena passato 1′ acquedotto un lavandaro raccoglie le acque perse della sorgiva e, non vedendo alcuna abitazione vicina, fa rammentare il tanto sudore sparso dalla gente del luogo per approvvigionarsi di questo prezioso elemento.
Dove termina la ghiaiosa strada sterrata e ricomincia 1′ asfalto, sulla sinistra, nell’angolo d’entrata della corte Giacomazzi, s’incontra il capitello oratorio intitolato alla Beata Vergine del Rosario ed ai Santi Antonio da Padova e Bernardino da Siena.
Il sacello, forse il più bello di tutti i Berici, ha una struttura a base absidale, con tetto in coppi rossi a due spioventi, con la cornice dell’entrata, la croce sul timpano, la palla rotonda sul tetto e gli spigoli laterali in pietra tenera. La costruzione può collocarsi con un certo margine di sicurezza al ‘700 e conserva, sopra 1′ altare in pietra recuperato da preesistenti edifici, le statue lignee di pregevole fattura, seppur malamente restaurate, della Madonna e dei Santi su citati. Il capitello è stato per lungo tempo proprietà della famiglia Pillon, come si può evincere dalla lettera “P” impressa nel portoncino d’ingresso e dall’iscrizione incisa nel frontone “restaurato il 20 maggio 1906 A. Pillon”; ora appartiene alla famiglia Bedin, soprannominata Baghera, che abita vicino.
Scollinato il pianoro, s’intravede a destra la casa gialla che appartenne a “Bepi Gripia”, uomo famoso al suo tempo, autodidatta e scienziato per libera scelta che si era messo in testa di costruire una macchina funzionante dall’energia sprigionata dal “moto perpetuo”; non si sa come avrebbe dovuto funzionare, ma, perdonate il mio dire semiserio, sarebbe stata la panacea di tanti problemi: purtroppo non ha trovato alcuno che finanziasse questa sua invenzione.
In conseguenza di questa balzana idea il suo nome divenne ben presto famoso per le stalle e le ostarie, e soprattutto villeggiato, così’ Bepi si chiuse in se stesso, divenne scontroso e scorbutico. A casa il fratello Toni era sempre a letto afflitto da una malattia di cuore e dall’asma, la diagnosi era ben s’intende di Bepi ch’era pure il medico di casa: aveva operato anche suo padre, oppresso da un patereccio, sul tavolo della cucina.
Il soprannome Gripia era stato dato, secondo le malelingue, quando Bepi, chiamato alle armi, pare si fosse nascosto sotto una mangiatoia (dialet. gripia) dove veniva messo il foraggio per il bestiame.
La strada ora scende ripida a costeggiare lo Scaranton ed in un battibaleno ci porta alla partenza di contrà Molini.