LA CHIESA DI SANTO STEFANO ED ALTRE OPERE PARROCCHIALI
GIULIANA CARON
I Paleoveneti o Veneti antichi si insediarono nel territorio di Brendola a partire dal Neolitico Recente, ma fu soprattutto con i primi interventi di bonifica messi in atto dai Romani che la pianura divenne sempre più abitata.
Il toponimo Vo’ sembra che derivi dal nome latino “vadum” (guado), cioè un luogo di passaggio obbligato in quanto rialzato tra due paludi: quella di San Valentino e quella di San Gaudenzio; oppure da “wadum” cioè luogo in cui si pesca, nome di origine longobarda.
La presenza longobarda è confermata non solo dalla chiesa dedicata a San Michele, ma anche dal toponimo “Arcomagna”, indicante la strada che porta ad Este attraverso il passo di Bocca d’Ansiesa.
I Longobardi, infatti, usavano lasciare delle farimannie, costituite da gruppi armati parentali, a protezione delle terre conquistate. Una fara si insediò anche nel territorio brendolano, probabilmente a Vo’ vista la presenza di una necropoli longobarda situata nel Monte dei Martiri.
Si sa che i Longobardi conquistarono prima Vicenza e solo successivamente le città di Verona, Padova, Monselice. Vicenza e il suo territorio divennero perciò la base di partenza per travolgere la resistenza dei Bizantini. Questa fu la ragione storica per cui Vicenza ampliò i confini sia verso Padova sia verso Verona, inglobando terre e centri abitati come San Bonifacio e Cologna Veneta, che tuttora sono sotto la giurisdizione ecclesiastica di Vicenza anche se dal punto di vista amministrativo non ne fanno parte.
Con le invasioni barbariche, che continuarono fin verso il Mille, le terre più basse non vennero più coltivate, forse per una rottura degli equilibri idrici. La pianura fra Brendola e Meledo tornò ad alternare zone lacustri e paludose a zone boschive o con vegetazione erbacea. Solo con l’inizio del Medioevo ripresero gli interventi di bonifica per rendere coltivabili le aree pianeggianti. A Nord della dorsale del Monte dei Martiri, infatti, è stata individuata un’ampia struttura a fossati d’epoca medioevale per drenare il terreno evitando il ristagno idrico.
Con la lunga e faticosa opera di bonifica della terra si formò anche l’insediamento del Vo’, in una zona più elevata rispetto alla campagna e attorno al ponte che permetteva di passare da una riva all’altra del Fiumicello. Ben presto la popolazione della contrada, a causa della distanza dalla chiesa parrocchiale, fabbricò una piccola chiesa dedicata a Santo Stefano. La prima testimonianza dell’antica chiesetta si trova nel libro A dei Feudi sotto l’anno 1288.
Successivamente il vescovo di Vicenza investì i Canonici Secolari di San Giorgio in Alga, che risiedevano nel monastero di sant’Agostino e in quello di San Fermo a Lonigo, di una decima a Vo’. E i religiosi, quando vi passavano spostandosi da un monastero all’altro, celebravano la santa messa. Quando nel dicembre del 1668 il papa Clemente IX soppresse i Canonici di San Giorgio in Alga con l’accusa di aver perso la loro originaria fisionomia e di non giovare più alla Chiesa, ad essi subentrarono le monache di Santa Teresa che cercarono di acquisire la decima episcopale, ma incontrarono l’opposizione della comunità brendolana e quindi rinunciarono.
La presenza della chiesa di Santo Stefano è confermata nel 1583 quando l’allora vescovo di Vicenza Michele Priuli venne in visita a Brendola. Nel 1743 il vescovo Antonio Marino Priuli aggiunse che in questa chiesetta veniva celebrata la messa ogni domenica e per questo, annualmente, la comunità dava 25 ducati. Evidentemente troppo pochi per poter sostentare un cappellano tutto l’anno “il che è causa delle frequenti mutazioni de Cappellani” come scrive il Maccà.
Sembra che la cappella fosse in origine di proprietà del Comune. Nel 1871, infatti, durante una visita pastorale nella diocesi, il vescovo Giovanni Antonio Farina rilevò che la chiesetta era di proprietà comunale anche se era inserita nel cortile di villa Maffei, come si può dedurre dal disegno inserito nel libro dell’abate Morsolin: “Brendola – Ricordi Storici”, scritto nel 1879.
Si trattava di una chiesa molto piccola con il tetto a due spioventi laterali con un solo altare in pietra, lo stesso che ora si può ammirare al centro del presbiterio. All’interno c’era una tela attribuita al Maganza che rappresentava la glorificazione di Santo Stefano e dove sullo sfondo si poteva ammirare la stessa chiesetta. Alle pareti erano appese quattro tele riproducenti San Domenico, San Giovanni Nepomuceno, Sant’Antonio da Padova e il Volto di Cristo retto da due angeli. C’era anche una croce astile del sec. XV inizio XVI, mentre il crocefisso in peltro era molto più antico, probabilmente del XIV secolo. Lo si desume dal fatto che la testa di Gesù era molto curata ed espressiva mentre mani e piedi erano trascurati come si usava in quel periodo.
Queste quattro tele e la croce furono ritrovate nel 1950 dalla signora Natalia Cita, vedova Maffei, nel sottotetto della casa. I tre quadri dei santi furono restaurati e ora sono in Canonica. Probabilmente sono di Giuseppe Cignaroli di Verona che operò nelle nostre zone tra il 1780 e il 1800.
Nel 1879 i signori Filippo Maffei padre e figlio chiesero al Comune di Brendola il permesso per “ribassare il piano della strada dei Martiri, dalla casa Bonato (inizio dell’attuale salita) alle case Crestanello e di demolire la piccola chiesa esistente lungo la strada stessa … ritenuta di proprietà comunale, e di costruirne un’altra in prossimità di quella demolita, chiesa che sarebbe rimasta di proprietà comunale” come scrive Giuseppe Storato nel suo libro “Nel mio andar per Brendola”.
Il consiglio comunale accolse la richiesta e la nuova chiesa, costruita a spese dei signori Maffei, venne consacrata il giorno di Santo Stefano del 1881. Successivamente i signori Maffei temendo che la chiesetta con l’andar del tempo non fosse mantenuta in buono stato di conservazione chiesero al Comune di divenirne proprietari, impegnandosi nelle spese di manutenzione e concedendone l’utilizzo agli abitanti della contrada. Il 19 maggio del 1882 la domanda venne accolta.
La chiesa, però, era troppo piccola per contenere tutti gli abitanti. La contrada di Vo’, infatti, era sempre stata la più unita e la più popolata della parrocchia grazie “allo spirito di superiorità coltivato dai Signori del luogo e per induzione passato agli incoli” come scriveva don Francesco Cecchin ne “Il Giubileo Arcipretale”. Dal censimento del 1914 risulta che c’erano 104 fanciulli (51 maschi e 53 femmine) che frequentavano il Catechismo, mentre 125 fanciulli delle contrade Casetta, Canova, Piocio e Madonna frequentavano la chiesa della Madonna dei Prati.
Gli abitanti di Vo’, già da tempo, desideravano staccarsi dalla chiesa parrocchiale di Brendola e avere un sacerdote fisso.
Anche la Curia stava pensando di smembrare il territorio della parrocchia di Brendola in quanto troppo estesa. Valutò che la Madonna dei Prati non poteva avere annessa la cura d’anime perché non aveva un suo territorio. Era, infatti, di jus patronato del Municipio, il quale aveva anche la proprietà degli stabili: chiesa, campanile, casa del Mansionario, orto. E il Diritto Canonico non permetteva l’erezione di benefici soggetti al jus patronato (ossia al diritto di nomina del Mansionario).
Già in occasione del recente Capitolato fra la Curia Vescovile e il Municipio per fissare i rispettivi diritti e doveri, il Vescovo aveva proposto, in un articolo del Capitolato, di associare alla mansionaria la cura d’anime. Ma il Municipio aveva rifiutato dichiarando di non voler ostacolare il sorgere della parrocchia di Vo’.
A questo progetto tentò di opporsi l’Arciprete, da sempre contrario alla separazione e favorevole alla costruzione di una chiesa al Cerro che “aggregasse tutta la comunità brendolana”.
Intanto su istanza dei signori Filippo Maffei, dell’ingegner Rossi e di Zadra Bortolo, che passando di casa in casa raccolsero le firme dei capifamiglia, il vescovo Ferdinando Rodolfi il 22 giugno del 1923 diede l’assenso e concesse licenza che nella chiesetta di Vo’ venisse celebrata la santa messa festiva. Il primo celebrante fu l’Arciprete don Cecchin: era il 29 giugno, festa di san Pietro Apostolo.
Il vescovo accolse anche la domanda di avere un sacerdote stabile a condizione che fosse eretta una chiesa capace e provveduto sia al congruo mantenimento del sacerdote sia alla casa di abitazione.
Gli abitanti di Vo’ non persero tempo e subito diedero vita a un Comitato per l’ampliamento dell’Oratorio. Il Comitato era composto da dieci capifamiglia, (presidente era l’ingegner Giuseppe Rossi, vicepresidenti Felice De Guio e Alessandro Rigolon, segretario Vittorio Calori, cassiere Bortolo Zadra, gli altri membri erano: Olimpio Bedin, Francesco Caldonazzo, Luciano Marzari, Francesco Brendolan e Giuseppe Beltrame.) e a questo scopo contrasse un debito di 50.000 lire (41.500 presso la Banca Popolare di Lonigo e 8.500 presso ditte private che consegnarono materiale per i lavori). La manodopera, invece, era gratuita.
Il 6 ottobre del 1923 Monsignor Tiziano Veggian Provicario del vescovo venne a benedire la prima pietra della chiesa in costruzione. Tornò a benedirla il 26 dicembre dell’anno dopo a opera ultimata. Da questo momento le vicende si susseguirono a ritmo serrato. Il 1 maggio del 1925 gli abitanti di Vo’ e delle contrà Casetta, Canova e Rondole fecero formale istanza perché fosse eretta la nuova parrocchia. Il 14 luglio Monsignor Veggian incontrò una Commissione che rappresentava i padri di famiglia e fissò le modalità per la costituzione del Beneficio parrocchiale, atto necessario per erigere Vo’ a parrocchia. Su 70 famiglie solo otto si opposero su consiglio dell’Arciprete, del cappellano (don Agostino Ceccato) e del Mansionario della Madonna dei Prati (don Antonio Danese). Successivamente il vescovo interpellò il Capitolo che con una lettera datata 31 luglio approvò a voti unanimi la proposta di erigere Vo’ a parrocchia.
E finalmente il 18 ottobre del 1925 il vescovo firmò il decreto ufficiale della nuova parrocchia. Alla parrocchia di San Michele assegnò il titolo di matrice e in segno di omaggio prescrisse che la nuova parrocchia ricevesse da quella di S. Michele gli olii benedetti il venerdì santo. (Solo otto anni dopo, il 4 dicembre del 1933 il re d’Italia Vittorio Emanuele III riconobbe la personalità giuridica della chiesa di Santo Stefano.)
Quando il 15 agosto del 1925 arrivò il nuovo parroco don Angelo Vignaga, la chiesa, costruita a forma di croce latina su progetto dell’ingegner Rossi, non aveva ancora né i soffitti né il pavimento ma solo i muri senza intonaco. Non c’era nemmeno la canonica in quanto non erano ancora state iniziate le pratiche per ottenere la cessione del terreno, né si era provveduto al beneficio parrocchiale (cosa che fu fatta l’8 ottobre del 1925 grazie alla donazione del terreno fatta dal cav. Ottaviano Rossi e dal cav. Filippo Maffei, presso il notaio Mistrè di Valdagno).
La separazione dalla chiesa madre non era, però, avvenuta senza lacerazioni e gli animi restarono esacerbati. Il clima era molto teso tanto che il 17 gennaio del 1926 la Curia tramite il Cancelliere Don Giuseppe Roveran inviò una lettera ai parroci di Brendola e di Vo’ invitandoli a consigliare ai fedeli delle rispettive parrocchie di evitare di incontrarsi e di recarsi ciascuno alla propria chiesa parrocchiale.
Nel marzo del ’26 vennero ultimate sia la chiesa che la casa canonica. La chiesa era ad una navata; il presbiterio era separato con una balaustra dalla navata e conteneva la statua della Madonna. La cupola era alta tre metri, di forma ottagonale con quattro finestre. L’antico altare di pietra era posto nella parete a Nord.
Nel 1927 vicino alla chiesa venne costruito l’oratorio e venne eretto l’altare a Sant’Antonio abbellito con una statua in legno. L’anno dopo vennero posti in opera i vetri decorati a fuoco e acquistato un calice d’argento con le offerte dei fedeli.
Una volta completata la chiesetta si pensò al campanile e all’asilo. Era l’anno 1930. Progettista e direttore dei lavori era sempre l’ingegner Giuseppe Rossi.
Ad agosto iniziarono gli scavi per le fondamenta e il 9 settembre venne benedetta la prima pietra sia del campanile che dell’asilo.
A dicembre giunsero le campane da Padova. (La più grande, che pesava 11 quintali e 70 Kg, dava la nota Re. Portava le immagini di Maria Immacolata, di Santo Stefano protomartire e di San Ottaviano e le seguenti iscrizioni: “Laudo Deum verum – Plebem voco – congrego Clerum”; “A fulgure et tempestata libera nos Domine”; “Cav. Ottaviano Rossi”. La seconda campana, che dava la nota Mi e pesava 7 quintali e 80 Kg, venne dedicata a San Giovanni evangelista. Portava impresse le immagini di San Giuseppe, dell’apostolo Pietro e di Santa Rosa e le seguenti iscrizioni: “Defunctos plango – Vivos voco – Fulmina frango”; “A peste, fame et bello libera nos Domine”; “Giovanni Rossi – Rosa Novello”. L’ultima pesava 5 quintali e 50 Kg e dava la nota musicale Fa diesis. Portava impresse le immagini di Maria Assunta, di San Luigi Gonzaga e di Santa Teresa e le iscrizioni: “Soli Deo honor et gloria”; “Maria Facchin vedova Rossi”.)
Nel frattempo (anche se eran passati solo 14 anni) la chiesa era diventata troppo piccola per il borgo popoloso. Il 9 marzo del 1938 iniziarono i lavori di sterro per ingrandire la chiesa. Alla fine di ottobre furono completati i muri perimetrali e il 31 luglio del 1939 iniziarono i lavori per la definitiva sistemazione. In poco più di tre mesi la piccola chiesa a croce latina venne ampliata: si costruirono le due navate, il transetto e la cupola. (La convalida del riconoscimento civile della parrocchia di Santo Stefano avvenne con decreto 29 agosto 1944 ad opera della Repubblica Sociale , convalidato a sua volta il 14 dicembre del 1946 dall’allora Ministro Corsi della Repubblica Italiana.)
Nel novembre del 1941 morì il parroco don Angelo Vignaga mentre assieme al medico dott. Leopardi assisteva un ammalato nella vicina parrocchia di San Vito di cui era Vicario Economo: tutta la comunità pianse il suo primo parroco.
Intanto lo Stato Italiano, già in guerra, decise di raccogliere le campane degli edifici di culto per utilizzare a fini bellici il rame e lo stagno di cui erano composte. Anche il parroco di Vo’ don Giovanni Burati ricevette l’avviso di requisizione da parte del Sottosegretario di Stato per le Fabbricazioni di Guerra. Fortunatamente l’ordine non venne eseguito e le campane restarono al loro posto.
IL DOPOGUERRA
Finita la guerra ripresero le attività. Nel 1948 la contrada delle Rondole decise di costruire un capitello alla Madonna di Monte Berico e di festeggiarla ogni seconda domenica di maggio.
L’idea partì da un voto che le madri di Emilio Cracco e Urbano Negretto fecero alla Madonna quando videro partire i loro figli all’inizio della seconda guerra mondiale: promisero di costruirle un capitello se fossero tornati sani e salvi. I due soldati furono catturati e deportati in campo di concentramento, ma tornarono a casa vivi. Un altro fatto importante avvenuto nel 1945 diede un’ulteriore spinta all’idea della costruzione. I tedeschi in fuga cercavano qualunque mezzo utile per scappare. Vennero a sapere che in contrada Rondole qualcuno aveva due biciclette e un cavallo. Arrivarono con i mitra spianati, ma non trovando nulla (biciclette e cavallo erano stati nascosti) se ne andarono sparando alcuni colpi verso un bambino che spiava dietro un pilastro e verso un ragazzo che scappava nei campi: nessuno per fortuna fu colpito.
Per ringraziare la Madonna per lo scampato pericolo le sei famiglie della contrada (Beltrame Emilio, Beltrame Francesco, Beltrame Leonardo, Cracco fratelli, Negretto Giovanni, Negretto Teodosio e fratelli) si divisero le spese della costruzione. Il capitello con la statua della Madonna posta sotto una nicchia ad arco pieno venne benedetta dal vescovo Zinato due anni dopo.
Sempre nel 1948 la parrocchia acquistò il fondo “Fongaro” composto da campi di monte poco produttivi con una casa. L’idea era di trasformare la casa in un ambiente di ricovero per vecchi. Non fu possibile realizzare subito l’idea perché la zona era senz’acqua. Nell’aprile del 1953, però, il Comune di Brendola deliberò di ampliare l’acquedotto in modo da rifornire d’acqua tutte le zone ancora mancanti. Si cominciò allora a discute sul futuro di questa casa. Qualcuno voleva trasformarla in ricovero per vecchi, altri in casa parrocchiale, altri ancora volevano che fosse gestita dal comune. Si decise per il ricovero, ma la parrocchia non poteva fare da sola. Il parroco su suggerimento del vescovo prospettò al sindaco di Brendola M. Tonin la possibilità di costruire un istituto a vantaggio dei vecchi del comune. Il sindaco pienamente d’accordo diede l’incarico all’ingegnere comunale sig. Valdo di stendere un abbozzo di lavori. Il preventivo fu di 14 milioni. Sembravano tanti. Alcuni consiglieri erano favorevoli, altri contrari. Mentre si discuteva sul da fare il Consiglio Comunale messo in minoranza dovette dimettersi: era il 1956. E la nuova amministrazione non sembrava interessata al progetto.
Nel dicembre, sempre su consiglio del vescovo, il parroco provocò una riunione di giunta, ma non si concluse nulla e la questione venne rinviata. Il 22 febbraio del 1957 avvenne un’altra riunione inconcludente. Si discuteva sulla veste giuridica da dare alla nuova istituzione: sarebbe stato un ente indipendente o un ente dipendente dall’E.C.A.? Si chiese il parere del presidente dell’E.C.A., il sig. Leonardo Lovato. Ma ormai le condizioni di vita stavano cambiando rapidamente e l’onere di gestire una casa di riposo era troppo gravoso, per cui si rinunciò.
Nel frattempo il Consiglio che amministrava la scuola Materna riuscì a mantenere dal 1942 al 1953 il bilancio a pareggio con l’aiuto di vari enti che sussidiavano la refezione dei bambini.
Nel 1952 l’Autorità Provinciale per mantenere l’agibilità della scuola impose la costruzione di servizi igienici adeguati (quelli esistenti erano senza acqua corrente e a fondo perduto).
Mentre il costo della vita cominciava a crescere vertiginosamente e diminuivano i sussidi divennero necessarie alcune opere (il riscaldamento, andare a prendere i bimbi a casa).
Il 28 novembre del 1971 si costituì presso il notaio Misomalo di Vicenza l’Associazione “Scuola Materna Cav. O. Rossi” perché le nuove disposizioni di legge richiedevano che la gestione fosse curata da un organo collegiale. (Facevano parte dell’Associazione: Il dott. Dal Pra Aurelio presidente,la dott.ssa Rossi Vittoria vicepresidente, il rag. Rigolon Giuseppe segretario e cassiere, il parroco Burati Giovanni, la suora Pedrotti Diomira, l’insegnante Tonon Cornelia, e inoltre Serena Benito, Beltrame Filippo, Mantoan Arturo, Schio Mario, Negretto Tarcisio, Brendolan Mario.)
Nel 1977 vennero eseguiti altri lavori tra cui la costruzione della sala giochi, la saletta d’ingresso, i servizi igienici, la pavimentazione delle due aule, il locale per la nuova cucina a piano terra ricavato mediante ristrutturazione interna, la tinteggiatura dei locali, la sistemazione del cortile. Il costo, contenuto grazie al contributo di manodopera gratuita e agevolazioni varie da parte delle imprese, fu di 26 milioni (dieci milioni di offerte, nove milioni di contributo dal Comune, il resto coperto in parte con un prestito concesso dalla Cassa Rurale e Artigiana con un fido a tasso agevolato e in parte con il contributo dato dalla Regione Veneto).
Il 30 giugno del 1984 le suore, per motivi interni al loro ordine, furono sostituite da insegnanti.
Ritornando alle vicende della chiesa, vediamo che nel 1952 venne decisa la costruzione di un altro altare dedicato all’Assunzione della Beata Vergine Maria e l’anno dopo, nella piccola abside della navata di destra, venne costruito il terzo altare dedicato a Santa Bertilla Boscardin, abbellito poi con una pala. Non poteva mancare, infatti, un ricordo dell’umile Santa che nacque non molto lontano dal borgo di Vo’. Santa molto amata dalla spiritualità locale che tutt’ora apprezza in lei la profonda bontà e quel suo particolare atteggiamento verso le persone, quel suo sentirsi sempre riconoscente verso tutti.
Il lettore che ha avuto la pazienza di prestare attenzione a tutte queste date e a queste vicende non può che ammirare la coesione e l’impegno dimostrati dagli abitanti della contrada di Vo’. Qualità che non sono mai venute meno e che ancora si manifestano nel fervore sociale e culturale che animano la vita di questa piccola, ma vivace comunità.
L’ABBAZIA DI SANT’AGOSTINO A VICENZA Intorno al 1320 Giacomo di ser Cado da San Felice ricostruì alla periferia di Vicenza l’antica cappella di San Desiderio, dedicandola a Sant’Agostino, e costituì una comunità religiosa che si ispirava alla vita in comune raccomandata da Sant’Antagostino. Questa comunità, però, si estinse rapidamente. Nel 1401 il vescovo, Giovanni da Castiglione, favorevole al rinnovamento ecclesiastico concesse il priorato di Sant’Agostino al veneziano Gabriele Condulmer (il futuro papa Eugenio IV), della nascente Congregazione di San Giorgio in Alga (così denominata perché il convento era situato su quest’isola veneziana). I religiosi della Congregazione secolare di San Giorgio in Alga si distinguevano per scienza e santità, per i buoni costumi e la dedizione al culto in un periodo in cui gli ecclesiastici si mostravano negligenti o peggio erano motivo di scandalo. Non erano monaci ma canonici, ossia uomini di Chiesa, addetti al servizio liturgico e alla cura delle anime (erano detti anche “servi di Dio”). Portavano un’umile veste di color celestino donde l’appellativo di “Celestini” dato ai canonici. |
BIBLIOGRAFIA
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DOCUMENTI TRATTI DALL’ ARCHIVIO PARROCCHIALE DI SAN STEFANO IN VO’.