Verso il Cerro
Iniziando da Via Giovanni XXIII, in quello stabile ben tenuto con poggiolo che guarda la piazza, a fianco del campanile, con il bel selciato davanti in sassi bianchi e rotondi, c’era il negozio di alimentari e osteria con alloggio della famiglia Balbo Antonio, della moglie Sperotti Speranza e dei figli Giuseppe, Raffaele, Cesare, Luigi e Vittorio. Quest’ultimo commerciava anche in granaglie, fieno, paglia, vino, che teneva nel magazzino dietro lo stabile in fondo al vicolo sottostante.
Tra la casa Balbo e il campanile, con l’entrata sopra la scalinata, abitava Balbo Luigi, suo cugino e la moglie i quali, in casa, avevano un negozietto di mercerie; il Balbo faceva l’ambulante per le vie del paese con la bicicletta fornita di due cassette di legno, una davanti e una dietro, che contenevano la merce da vendere. Della stessa casata era la sig.ra Montini Ernesta in Balbo, la levatrice del paese, detta la comare.
Continuiamo la discesa per giungere in via Roma, dopo casa Balbo troviamo ancora oggi un altro caseggiato in sasso faccia a vista, che faceva angolo con il breve vicolo, dalla parte della strada. Questa casa, proprietà della parrocchia, era abitata dalla famiglia Castegnaro Guglielmo, subentrò poi il figlio Ottorino, che sposò Perazzolo Nazzarina, con i figli Nadea, Guglielmo, Emilio e Gabriella. Memo Campanaro, nato nel 1871, faceva el scarparo (il ciabattino) e anche il campanaro, lavorava a fare scarpe per la calzoleria militare durante la prima guerra mondiale, successivamente, con l’avvento del fascismo, gli venne ritirata la licenza per essersi dichiarato antifascista.
Era anche la persona che ai primi del ’900, ogni mattina, apriva la porta della chiesa per fare entrare la piccola Annetta Boscardin, futura S. Bertilla, la quale arrivava scalza per non consumare gli zoccoli e prima di entrare in chiesa si metteva calze e zoccoli che aveva sotto il braccio, aspettava fuori assieme a una sua amica, e lui quando apriva la porta, diceva loro: “Ah tose, sio za qua ? anime del purgatorio!.” Queste, dopo la S. Messa, andavano presso la sig. ra Bolzan Ida o dal sig.Zimello Gaetano dove si rifocillavano con un po’ di cibo e polenta abbrustolita; d’inverno ne approfittavano per potersi riscaldare presso il camino, per poi ritornare in contrà Goia dove abitavano.
Riprendendo il percorso, lungo il vicolo a sinistra, dentro a una porticina abitava Santa Birana, vedova, era stata sposata con Giovanni Muraro detto Nanei Biran, aveva sei figli suoi e sei di suo marito, ma era rimasta sola.
Sulla destra, poco più avanti, abitava una magliaia, Agnolin Elisa con il marito Leopoldo (detto Poli), la figlia e la nipote Flora, che durante la settimana confezionava calze e maglie con un telaio di legno e alla domenica vendeva i dolciumi in piazza.
Suo marito, detto Poli Sagraro, passava per le osterie con il cestello di vimini a vendere la sagra, cioè spumiglie, croccanti, pevarini, sfoiade, ecc.. Racconta un vicino di casa che era un personaggio caratteristico, di professione faceva lo straccivendolo, e aveva la passione di portare a casa dei gatti, ma per mangiarli all’insaputa dei famigliari li preparava già pelati e curati prima di arrivare a casa.
Era alto, con due baffoni all’insù che ogni tanto inumidiva con le dita e poi arrotolava perché restassero rigidi. Portava con sè anche le palline della tombola dentro un sacchetto e faceva delle scommesse con i clienti, i quali dovevano puntare su tre numeri dall’uno al novanta, se uscivano veniva loro dato un pezzo di sagra, altrimenti non ricevevano nulla; nel muovere il sacchetto per mescolare le palline diceva.
“Tre bale un soldo, tanto fumo poco rosto”.
Il denaro ricavato lo spendeva per bere, così che alla sera andava a casa senza dolciumi, senza soldi, ma barcollando con il pieno di vino.
Proseguendo per la via, sulla sinistra,dove c’è una piccola corte a triangolo, c’era l’abitazione della famiglia Rosa Emilio (detto Palladio), sposato con Muraro Caterina (Catina), i figli erano: Celio, Giuseppe, Ferruccio e Lucia.
Poco più avanti, sulla destra, entrando da una scalinata, all’interno c’era la famiglia Gennari Gaetano detto (Gaitanelo), muratore, la moglie era Marzari Maria e i figli si chiamavano: Delio, Mario, Flora, Marino, Gemma e Argia.
Subito sotto, nella casa allungata, con davanti una corticella, abitava Smania Fioravante, calzolaio; la figlia Elisa fu la prima impiegata della Cassa Rurale Artigiana di Brendola.
Sulla parte opposta della strada, c’è una corte dove stavano tre famiglie: dentro la prima porta, dopo tre scalini, abitava Gianesin Ulderico, muratore, detto Ico Bovo, con i figli Giosuè e Pietro e la moglie Bisognin Teresina. Nella parte interna vi era la casa della“ Virginia”, bidella delle scuole elementari, e a fianco c’era quella della vedova del Dott. Fenelli Albino, medico condotto.
Proseguendo, sulla sinistra, si trovava l’abitazione di Caneva Paolo, lattaio; questi, piccolo di statura, andava a piedi con i bidoni portati con il bigolo per prendere il latte nella latteria a S. Valentino o in quella di Vò; riceveva anche il latte dei contadini della contrà Castello e Lavo e sua moglie Luisa, detta Isa Latara, lo vendeva da dietro un piccolo banco dove teneva le varie misure in metallo da quarto, mezzo litro o litro.
Le persone andavano a prenderne un quarto o mezzo litro al massimo per quattro o sei persone che dovevano mangiare. In una stanza sottostante aveva il focolare dove faceva la ricotta.
Sulla destra, invece, vi era l’abitazione di Cunico Guglielmo, più tardi del figlio Giuseppe detto Zepe e di Zerbato Silvio, anch’egli falegname; queste due famiglie convivevano nella stessa casa per motivi di parentela: due fratelli avevano sposato due sorelle.
Mi informa la sig. ra Muraro Fernanda che questo falegname, oltre ai normali lavori, faceva le trottole (i moscoli) per i ragazzi, queste fatte girare a mezzo di uno spago avvolto su di esse si lanciavano per terra, trattenendo un capo dello spago, si faceva così la gara a chi faceva girare la trottola più a lungo.
Più sotto, dentro un vicoletto abitava Bisognin Emilia, in Bedin, col figlio Domenico (detto Menegheto), ed ancora più sotto stava Castegnaro Oprandino, sarto; costui era di piccola statura, oltre che a casa lavorava in un atelier a Lonigo, era una persona raffinata e vestiva le persone più benestanti del paese.
Sotto il piccolo porticato, unito alla casa, abitava la famiglia Chiementin Fiorindo (manovale), Luigi e la sorella Regina. A Fiorindo piaceva molto il vino: un vicino di casa racconta che egli tornando a casa di notte ubriaco e senza luce, andò per errore in camera della madre e sentito il letto freddo si portò sulla strada gridando che era morta, mettendo in subbuglio tutta la contrada.
Era successo che la madre era andata, poco lontano, dalla figlia e nel letto, dove c’era la monega con la fogara, le braci si erano spente, ma era rimasto il cumulo di coperte che lo avevano ingannato.
Proseguendo, sempre sulla destra, c’era l’ultima abitazione di Via Giovanni XXIII , sul davanti aveva una piccola corte in sassi bianchi e neri rotondi, ci abitava un fratello del Chiementin.
Memo Campanaro
Negli anni ’40, Memo Campanaro che, data l’età, aveva sempre bisogno di aiuto dai famigliari o dai vicini di casa, talvolta chiedeva anche la collaborazione di alcuni ragazzi che volentieri e con gran divertimento, tiravano le corde per far suonare le campane prima delle varie cerimonie religiose; in particolare, nei giorni precedenti le grandi festività o in caso di calamità bisognava suonare il campanon, ciò consisteva nell’andare, accompagnati dal campanaro, in cima al campanile nella sede delle campane, legare i batocchi delle tre campane, poi con un sistema di intreccio di corde legate alle due mani e a un piede muovendosi come un burattino, con ritmo musicale, si facevano battere sulla campana creando un suono particolare di festa se il ritmo era vivace, o di tragedia o pericolo per la popolazione se si suonava lentamente.
Quando in estate si profilava un temporale, Memo Campanaro si metteva davanti alla porta della chiesa ad osservare il cielo e il movimento delle nubi e in base a come tirava il vento diceva: “dai tusi che se el temporale el vien dal Garda o da Fimon bisogna sonare le campane parché la se tempesta”. Durante la settimana santa, in segno di lutto, le campane erano ferme, allora veniva portato giù dal granaio della chiesa uno strumento di legno grande circa un metro per due che si chiamava il ranelon: messo in piazza sulla scalinata della chiesa si faceva girare un manico il quale muoveva delle pale interne facendo un rumore assordante come quello dei tamburi, questo si usava al posto delle campane.