Via Postumia
Di fronte alla casa di Graser Arcilio, sulla destra salendo, si apre una stradina sterrata che conduce a Via Postumia già Strada delle Grotte. Dopo circa duecento metri sorgono le case di:
– Romio – Gioanin Papa, “el papa moreto” Giovanni Balbo (La figlia Rosalia sposa Alberto Bisognin). Figli: Giovanni, Angelina, Igino, Franca. I figli di Giovanni sono Alberto e Fabrizio (sposato). Una delle abitazioni era la casa dei Romio, emigrati negli anni ’50 ad Alte di Montecchio M.
Un po’ più avanti ecco la corte della Bice Sambugaro. Vi abitava Edvige con i figli: Aldo, Gino e Adelina. Sambugaro Gino non era sposato.
Un’ulteriore deviazione della strada, tenendo la mano sinistra, in salita, poco più avanti conduceva e conduce in corte di Marchetto Giovanni detto Nani Pajo sposato ad Anna Maria Maran.
“Storia di famiglia” Marchetto Attilio e Giovanni
Casa Marchetto, era abitata da due fratelli: Giovanni e Attilio Pajo.
(Attilio vi si trasferisce quando si sposa con Adelia). Attigua a casa Marchetto sorge l’abitazione di Fogolari Fortunato Tranquillo e di Allegro Antonia. La coppia ha un figlio Fogolari Francesco.
“Storia di famiglia” Fogolari Fortunato
Marchetto Giovanni e Anna Maria Maran hanno due figli: Silvano e Sibilla. Francesco Fogolari sposa Sambugaro Bruna. Hanno tre figli: Antonia, Pierina e Fortunato. Quest’ultimo sposa Lucia Zuffo ed è il padre di Nevio.
Ora bisogna tornare un poco indietro, raggiungere la casa di Gioanin Papa e proseguire oltre la casa di Sambugaro Ivano ed Ettore.
Ecco la casa ora di proprietà di Chiarello che un tempo apparteneva ai Pillon: Pillon Oreste detto Moche con i figli Pierangelo, Anna, Rita che abita a Revese.
“Storia di famiglia” Pillon Giacomo (Del Pentavio)
“Storia di famiglia” Pillon Lorenzo (I Moche delle Grotte)
Avanzando, sulla sinistra, per una strada alquanto erta, si saliva da Balbo Giuseppe (vecchio).
“Storia di famiglia” Balbo Giuseppe (Agnoleto)
“Storia di famiglia” Balbo Basilio
La moglie di Balbo Giuseppe detto Bepi Agnoleto muore giovane: quando anche Emilia Acco (mamma di Angelo Balbo) rimane vedova, i due si sposano e vivono fino a un’età avanzata.
Bepi Agnoleto era un uomo molto appariscente, con modi eleganti e due baffoni all’insù: un tipo originale.
Più avanti, sempre in Via Grotte, poco lontano dallo Scaranto della Bocara, sorge la casa di Balbo Angelo Basilio, agricoltore. Ha 9 figli.
Uno, Franco, gli muore schiacciato dal trattore, mentre sta aiutando il padre, lungo la Via delle Laste (ora Via Monterosso).
Qui siamo sotto lo Scaranto di San Gottardo. Fa fresco anche d’estate. Poco sopra la casa ci sono le grotte che hanno, sull’entrata, il pesto preistorico scavato nella roccia, dove si macinavano le granaglie.
Presso la Bocca dello Scaranton, c’è una stanza dove producevano polvere da sparo.
Dopo la casa di Balbo Basilio, salendo, a sinistra si incontra la casa che era di Peruffo Francesco (Chichi Perufo). Chichi sposa Brigida. Hanno due figli: Romeo e Luciano. Agli inizi degli anni’50 si trasferiscono a Montecchio Maggiore. Balbo Ernesto, figlio di Balbo Giuseppe, detto Bepi Agnoleto, acquista l’edificio e vi va ad abitare verso gli anni ‘60. Intesta la casa alla moglie Rina Alberti. L’abitazione, attualmente, è vuota.
Si sale per 60 metri e a destra siamo in corte di Forza Renato.
“Storia di famiglia” Forza Renato
I Forza venivano da Mantova. Abitavano nella corte dei Pilonzelo. Il capostipite era stato Renato che si era sposato con Luigia Balbo, (sorella di Giuseppe, Bepi Agnoleto). Poi vennero i figli. Erano carrettieri, muratori, contadini …; ogni mestiere era buono per mantenere in dignità la famiglia.
Accanto ecco la casa di Pillon Adolfo, che sposa Rosetta Rigolon.
Figli: Cesira, Linda, Maria, Vittorio, Albino, Sergio che emigra in Canadà e Amelia che sposa Angelo Calori di Vo’.
Oggi. La casa di Pillon Adolfo è abitata da Rigolon Albino, Albino Sandron. Albino è sceso dalla casa dei Sandron sotto la priara poco lontano dai Cimoso Almirotti e ha acquistato anche quella di Giuseppe Forza.
La corte a “elle”conserva molto del suo fascino di un tempo: il portico, la stalla, il deposito e poi…quella vallata fatta di scampoli curati COME GIARDINI.
La terza abitazione ha ospitato anche la Famiglia Rigolon Abramo (fratello di Albino); Abramo sposa Raffaella. Nascono Dario ed Elvira. La famiglia si sposterà al Pedocchio.
Si sale ancora. A cento metri e sulla sinistra ci sono le due case delle famiglie Zonato: Zonato Rodolfo, detto Dolfeto Parleo e dello zio, Zonato Luigi.
“Storia di famiglia” Zonato Remigio e Luigi
Zonato Luigi aveva sposato Rosa Acerbi, detta Mora Parlea.
Morto il marito, Rosa rimase sola ad allevare i due figli: poca terra di monte, qualche capra e un mondo di dignità. Quando Gino e Antonio ebbero l’età per lavorare, decisero per le miniere in Belgio. Gino non tornò più; Antonio, per contro, dopo sei mesi rifece la strada in senso inverso. Lavorava dove trovava, come bracciante: pochi guadagni, risparmi ancor meno. Intanto si era trovato la fidanzata e voleva sposarsi.
Fu un calvario per la povera Rosa. Aveva ben poco da offrire alla nuora: le offerse tutta la sua abnegazione.
Oggi. la casa non è abitata
Dopo un percorso di circa 300 metri, sempre in salita, a sinistra, per una brevissima viottola si trova la casa che apparteneva a Rigolon Giuseppe (Bepi Sandron) e al fratello Rino (Rino vive con il fratello Giuseppe).
I Sandron
Sandron erano i Rigolon delle colline: Via Postumia (Strada delle Laste, Grotte, Priara…).
“Storia di famiglia” Sandron
Il nomignolo Sandron risultava “eredità” di uno zio di nome Sandro, grande e grosso, Sandron, appunto.
I boschi, verso San Gottardo e verso Cazzale, non avevano misteri per questi abitanti solitari, avvezzi ai silenzi dei sentieri, alle fatiche della terra di monte, al trasporto di pietra.
Incontrarli non era semplice. Scendevano il sabato al mercato le loro donne, in cerca del necessario al vivere quotidiano; scendevano gli uomini, più di frequente per un bicchiere di vino in compagnia, talune sere d’estate.
Ma d’inverno era un altro paio di ciabatte. Alla stalla dei Sandron affluivano ragazzi e ragazze: le belle figlie di Ermogene, la figlia di Bijo Joachin; Rino Sandron, allegro e bagolon, ma anche vulnerabile per la sua mania dell’ordine.
I ragazzi Bisognin, Nardo tra i primi, i Frigo.
Castagne, vino caldo e ragazze costituivano una gran miscela per serate effervescenti e, talvolta, pepate. Gli scherzi erano pane quotidiano e non sempre scoppiavano di gentilezza. Come la volta in cui Nardo sofferente di mal di pancia, decise di prendere due piccioni con una fava: eliminare il dolore e mortificare la pignoleria di Rino , nella cura della capezzagna. La mattina dopo, Rino scorse un gran masso in mezzo alla viottola tra i campi e, infuriato, andò per scostarlo.
Nardo afferma che l’urlo dell’amico si sia sentito fino ai Mulini.
Oggi. I Sandron oggi sono padre e figlio, Albino e Luca. La moglie di Albino, Frigo Maria Rosa , se n’è andata alcuni anni fa.
I due uomini, due colossi alti e robusti, vivono dignitosamente, in una casa pulita e in ordine, lassù sopra lo Scaranto del monte.
Lasciata la casa originaria di famiglia, hanno ristrutturato la casa di Pillon Adolfo e sono vicini di una signora venuta da fuori; l’auto ha accorciato le distanze e i Sandron non hanno più la stalla.
A destra, un poco più in su, ecco la casa dei Cimoso, dove abitò Luigi Almirotti, con la moglie Giuseppina Marzari. Avevano due figli: Fernanda e Tiso. Luigi Almirotti era conosciuto anche come Bijo Ioachin.
La casa dei Cimoso, durante l’ultima guerra, ebbe modo di ospitare la mia famiglia.
Anche Joachin lasciò il podere. Subentrò, allora, la famiglia Ambrosio con due figli: Giuseppe e Antonietta.
Verso gli anni ’60, la proprietà venne rilevata da Pozzo Omero che aveva, a sua volta, due figli. Uno dei due sposò Agnese, la sorella di Mario De Benedetti. Poi se ne andò in Brasile (San Paolo).
Oggi. La casa è proprietà Dal Maso
Proseguendo la salita per altri 80 metri, sulla sinistra, si incontra la casa che apparteneva a Golfré Andreasi Ermogene. La strada è ripida, impervia e dissestata. Le figlie, come molte ragazze di San Valentino, erano andate a servizio a Vicenza.
Ermogene Golfré Andreasi sposa Angela Forza. La casa dove abitava è stata poi proprietà dei Rossi della Carbonara e quindi di un Signor Parise. Hanno cinque figli: Bruno 1922, Edda, Neda, Bruna, Lina, Leda 1921 che sposa Albino Bedin detto Petote.
Ermogene veniva da Mantova. Conobbe la moglie Angela Forza durante la guerra. I due andarono a Mantova, ma poi tornarono a Brendola e acquistarono la casa alla Priara. Leda allora aveva 12 anni.
Dopo la guerra, la svalutazione monetaria rese difficile mantenere la proprietà. Vendettero e comprarono i Rossi della Carbonara; i Golfré restarono come fittavoli.
In epoca successiva il figlio Bruno acquistò la casara vicino al ponticello ai Mulini; però mantenne in affitto il “logo della priara”.
Quando i Rossi vendettero, comprò Parise.
Le Rogazioni
Ah! le rogazioni!…
Me le ricordo, come fosse ieri, le rogazioni.
Chiedevano una levataccia antilucana, buone gambe e devozione. Viste da lontano era atto di grande preghiera, poco diversa, tuttavia, dall’ambarvale pagano.
Andava il Sacerdote salmodiando e invocando i Santi, su è giù per strade sterrate e viottole, per sentieri appena segnati. Un lungo serpentone variopinto si snodava tormentoso, flutto che or saliva or scendeva come su una immaginaria spiaggia.
Scendeva e saliva, insieme l’incessante orare, si perdeva tra gli anfratti e le curve; ricompariva vivo e forte allo sporgersi del sentiero. Trasportato dalla brezza mattutina l’ “ Ora pro nobi(s)”, si riversava come l’acqua dei torrenti: scarsa nella stagione. Ancora si rabbrividiva nell’alba. Le giornate dovevano essere tre: lunedì, martedì e mercoledì; la settimana quella prima dell’Ascensione.
Davanti precedevano tre chierichetti: due per le candele e uno per la Croce; seguivano il Sacerdote in cotta bianca e il Sacrestano con il turibolo per l’incenso e il secchiello per l’acqua santa; dietro un giovanotto (o sacrestano) addetto alla raccolta delle offerte; in coda qualche donna di gran devozione, forse un paio d’uomini dei Confratelli del Santissimo (capati), quindi una pletora di ragazzini più o meno cresciuti. A Brendola le quatto Parrocchie suddividevano il territorio in dodici itinerari diversi: quattro teorie variopinte ogni mattina e un Crocifisso portato per le Contrà a benedire.
Le rogazioni, in barba al significato del termine, non erano solo devozione.
C’era nella gente tanta voglia di incontrare e di incontrarsi, anche di curiosare e di sorridere. Faceva buon umore l’altarino composto sopra una sedia con un nido d’uova o il gallo appeso per le zampe e la cresta in giù che, scuotendo il mal combinato tavolino, mandava all’aria fiori e tovaglia; o ancora la cesta di fichi fioroni, pesante da portare su e giù per le contrade…(episodio realmente accaduto).
Il sacerdote visitava la gente, accedeva alle case, benediva, chiedeva, s’informava: veniva a garantire i buoni frutti della terra. Poi c’era la faccenda del caffé.
Il supplizio veniva inflitto, immancabilmente, anche a casa Pillon, ”Moche” di Via Grotte, ora Via Postumia.
La Strada delle Laste, delle Grotte e il Monterosso erano giurisdizione di San Vito. Quella Rogazione toccava a Don Gioacchino Dal Ben.
Figura di prete santo, mite e sollecito, Don Gioacchino (che viveva con la sorella Santa in veste di perpetua) manifestava grande devozione, anche durante le Rogazioni. Avrebbe voluto, il poveretto, che la sua processione desse prova di sentimenti profondi, che i fedeli pregassero con raccoglimento almeno pari al suo; ma tant’era…masnadieri erano, discoli… Il buon sacerdote si rosicchiava le nocche, per non lasciarsi andare a giudizi poco generosi.
Il fatto è che, giunti a casa Pillon, la gentile e devota Signora Teresa si faceva in quattro per accogliere il prete, farlo entrare in cucina e preparargli il caffé. L’invito era così sincero e pressante che l’uomo non sapeva esimersi e accettava.
Poi la faccenda prendeva una viottola non contemplata: la napoletana stentava a bollire, il caffé versato era bollente e scottava, il tempo passava.
Allora il meschino s’ingegnava di rimediare: versava il liquido sul piattino e lo sorbiva da lì, nell’illusione alquanto pia di fare prima.
Intanto fuori la corruzione dilagava e “l’associazione a delinquere” si faceva ardita al punto che persino il Crocifisso si lasciava coinvolgere in azioni predatorie di “ more, amoli e fichi “.
Tutta colpa dell’ altarino delle offerte, sistemato giusto sotto un grande gelso dai frutti succosi e dolci, presso la fontana.
A dargli man forte, poco discosto, svettava un susino, un amolaro carico di amoli ancora acerbi. Più in giù, toccava al fico, coi suoi fichi fioroni già grossi, ma lungi dall’essere maturi, l’incombenza di indurre in tentazione.
Obiettivo del delinquere? Tutto quel ben di Dio, sospeso tra terra e cielo, ma troppo alto per le corte braccia della ciurma. A dire il vero il buon Gesù se la godeva un mondo e anche i ragazzi, del resto.
Un anno la combriccola esagerò. Nelle scaramucce che seguirono la caduta dei frutti, andò a gambe all’aria anche il secchiello dell’acqua benedetta. Quando se ne accorsero, i ragazzi ammutolirono.
“E adesso?…” Ma dal Crocifisso, Gesù, che se l’era spassata assai, diede l’idea giusta: “La fontana… riempi il secchio alla fontana! Tutta l’acqua è dono di Dio. Più benedetta di così…” Fu l’unica volta in cui Don Gioacchino, uscendo, poté mandare un sospiro di sollievo: la “masnada” sedeva queta, queta, mogia, mogia… “Bravi figlioli!, è così che si fa!” proferì sorridendo.
NB. Mi fa notare, giustamente, Pierangelo Pillon che il caffé, al sacerdote, veniva offerto per tradizione. Ecco quanto scrive:
“ Era questa una consuetudine tramandata chissà da quando. La casa Pillon (Moche) si trovava a ridosso di uno di quegli altarini nominati prima, che costituivano una delle soste obbligate nel percorso delle rogazioni, dove il prete implorava per il buon raccolto futuro (mentre per lui c’era un raccolto immediato: uova e altri generi in base alla generosità degli abitanti circostanti) e benediva. Altri aspetti logistici erano la lunga distanza dalla sosta nel precedente altarino e soprattutto l’orario a cui si giungeva in questo posto, visto che come detto prima le Rogazioni iniziavano all’alba.”
Rapare…i muli!
Sicuro, anche i muli, povere bestie, andavano alleggeriti, in estate. Gilmo Forza, durante il servizio militare, aveva quel compito lì: fare “barba e capelli” ai riottosi quadrupedi. Sua madre Rita gli diceva: “inpara l’artee metela da parte”
Così Gilmo si impegnò anche in quell’esperienza.
Ma, tornato in Contrà, il congedato incontrò un ostacolo: non c’erano muli.
Allora, per non sprecare l’abilità acquisita, si improvvisò barbiere. Munito di cassetta professionale, si recava a domicilio e rapava le zazzere.
(Dai ricordi di Pierangelo Pillon)
Gilmo durante il militare rasava il pelo ai muli per cui, tornato in abiti civili e facendo tesoro dell’esperienza acquisita, riprende a fare il barbiere a tempo perso, stavolta degli umani.
Mi ricordo che in particolare nelle serate d’inverno raccolti attorno alla stufa dopo cena arrivava su chiamata con la sua attrezzatura dentro una cassetta di legno, ed a turno ci tagliava i capelli.”
Rosa Parlea
Storie di Rosa Parlea (Mora): Due ceste di …gentilezza
E’ possibile che mia nonna si rigiri nella tomba a sentir quanto sto per raccontare.
Quando successe, la mia ava impose il silenzio sulla faccenda e, se anche non lo avesse fatto, c’erano regole tacite in famiglia, cui nessuno si sarebbe sognato di derogare. Rosa Mora era di casa. Alta, allampanata come un palo della corrente elettrica, già vecchia in barba agli anni anagrafici, vestiva perennemente di nero. Compariva in primavera con una grembiulata di tarassaco, in giugno con un sacchettino di pere sampierole. Veniva, beveva il caffè (mezzo orzo e mezzo caffé), chiaccherava delle sue cose con le mie donne; se ne andava con qualche fagottino. Spesso si accontentava di raccomandare a mio padre quel figlio senza lavoro.
Poi il figlio decise di sposarsi. La povera donna, che aveva terra battuta per pavimento, il brondo (la pentola grande) per il minestrone e il camino come fonte di calore, entrò in fibrillazione.
Era il secondo dopo-guerra e a quei tempi la povertà tuonava endemica. Possedevamo comunque un carro di orgoglio; e l’orgoglio, si sa, tien freschi d’estate e caldi d’inverno.. A preparare il rinfresco per gli invitati e festeggiare la sposina, Rosa Mora ce la mise tutta. Mancavano i bicchieri.
Fu così che in Via Valle comparve un giovedì mattina, nera come un fil di lana da calzerotti e aggrondata come non l’avevo mai vista.
Confabularono, lei e mia nonna, parlottarono a lungo. Quindi vidi la mia ava preparare due ceste e el bigolo (l’arconcello), riempirle di certa merce e coprire il tutto con due canevaze (asciugamani di canapa).
Poi Rosa partì verso le Grotte, china sotto il suo peso.
Una settimana più tardi, la donna tornò in Via Valle rispettando le stesse modalità, ma il carico pesava un po’ di più: Rosa aveva aggiunto una bottiglia con mezzo litro di latte di capra.
Rosa Acerbi…povera, ma Signora.
Un fiammifero …di troppo
Quanto glielo raccomandava, la povera Rosa a Piero di lasciare in pace I fiammiferi! Ma il nipote era innamorato di quel fuoco che si accendeva sprigionandosi da una cappocchia zolforosa.
“Lasa stare i fuminanti!….”
L’esclamazione tante volte udita e mai ascoltata, dovette sembrare fin troppo familiare e sinistra al ragazzo, allorché, per gioco, dette fuoco a un fascio di steli di granoturco, appoggiati al fienile. I pompieri, chiamati in tutta fretta, erano accorsi con un mezzo troppo grosso. Si attivarono gli uomini della Contrà e le fiamme non ebbero il sopravvento. Andò male, tuttavia, per una capra che, poveretta, finì arrosto.
Rosa e Venezia
Bravi tutti ad andarci in treno! A piedi ci si va, come in pellegrinaggio: si parte a un’ora impossibile e si arriva a Venezia, con i piedi di fuoco… Quando sposò, Rosa avrebbe voluto una bella famiglia.
Invece i figli stentavano ad arrivare. Fu così che, su consiglio del medico, la donna decise di andare al mare, per curarsi. Malandata com’era, non se ne parlava neanche di andare a Venezia a piedi.
Ma in carriola sì. Rosa andò al mare in una carriola, spinta dal marito.
Sandron
Com’è che da Rigolon all’anagrafe, in contrà si diventa Sandron?
Domanda “birbantella”. La risposta arriva, tuttavia, con un sorriso.
“Avevamo un antenato grande e grosso di nome Sandro: un colosso. Per distinguerlo da un altro membro della famiglia con lo stesso nome, lo chiamarono Sandron…”
Il nomignolo rimase, anche perché i Sandron godono di una stazza di tutto rispetto.