Via Isonzo

Verso la fine di via Pave, di fianco a casa Tadiotto si apre e si snoda un piccolo sentiero in discesa, che conduce nella sottostante Via Isonzo (già Via Maraschion). Qui era la bella casa di Frigo Angelo (Angelin Paela) dove viveva con due fratelli Albino (morto in Russia) e Stefano.
“Storia di famiglia” Vaccarotti Pietro
E’ questa la casa dove erano approdati, dallo Scaranto, i Frigo (casa originaria: l’abitazione che sorge un poco sotto Danilo Menon).
Vi erano giunti Giuseppe Frigo e Casarotto Caterina.Qui nascono i figli. Giuseppe muore giovane. Caterina sposa Stefano il fratello del marito. Questi viene ammazzato da un rapinatore.
In una casina, accanto ad Angelin Frigo, abitava Esterina Marcolongo, moglie di un Bedin. Va a Trento.
“Storia di famiglia” Frigo (I Paela del Maraschion)
Giunti sulla strada principale, all’incrocio sulla sinistra, ecco la grande fattoria della famiglia Giacomazzi (detti Bijoti).
“Storia di famiglia” Giacomazzi Angelo
Gli edifici di Corte Giacomazzi sono due: quello a sinistra, con direzione Nord-Sud, era costituito da due unità abitative, separate dalla stalla; quello a destra, con andamento parallelo al precedente era di proprietà Bedin Rosalia fu Antonio. Successivamente vi abitò Bedin Gelindo (Baghera). Nella porzione di casa abitava Faccio Guglielmo con il figlio Giacomo.
Oggi. A essere abitata è solo la casa dei Giacomazzi. Vi sono, padroni e signori, Armando e Vittorio. Sanno tutto sulla storia del sito; ma la solitudine li ha resi un po’ misantropi e accostarli non è sempre facile.
I Giacomazzi si erano insediati al Maraschion verso il 1870, quando Pillon Pellegrino aveva lasciato la dimora di famiglia.
Era sceso in basso, per occupare il nuovo edificio eretto all’imbocco per Via Mulini, poco sotto Villa Cavalcabò e dirimpetto ai pochi ruderi della Chiesetta di San Valentino.
Al Maraschion i nuovi venuti avevano occupato in affitto campi e casa dei proprietari uscenti e lentamente ne erano, a loro volta, divenuti proprietari.

Quanto sia antica casa Giacomazzi ce lo documentano le mappe, gli estimi Catastali e una targa con lo stemma di Venezia a testimonianza dell’esistenza di un banco dei pegni autorizzato dalla Repubblica Veneta (Assicurazioni Generali Venezia – con il Leone di San Marco).
L’ingresso antico, sovrastato dalla targa, si colloca sul retro di casa Giacomazzi: l’arco di una porta murata, divisa a metà da una soglia. Gli abitanti di Brendola la chiamavano la “Porta del boletin” e la corte “la Corte del boletin” (nar tor aqua al Boetin…).
E’ probabile che tale Banco sia rimasto in attività, per i Brendolani, anche dopo la caduta di Venezia, in epoca napoleonica.
Alla casa del Maraschion arrivarono i nonni Giacomazzi. Lì nacquero i figli: Angelo, alcune sorelle e divenne parte della famiglia anche Luigi, che di cognome faceva Miglio.
“Storia di famiglia” Miglio Luigi
Poi la storia si svolse in modo tranquillo, senza scossoni: terra da coltivare, stagioni buone e stagioni bigie. Angelo e Luigi sposarono due sorelle: Margherita e Rosa; i vecchi se li prese il buon Dio. Quando Margherita rimase vedova, le due famiglie che vivevano vicine, ma separate, divennero un unico nucleo con Angelo per capo-famiglia.
Le case dei Bedin (detti Baghera) e di Faccio Giuseppe, di buona fattura, testimoniano un passato da benestanti.
“Storia di famiglia” Bedin Giuseppe (Baghera)
Fra le abitazioni, prospiciente la strada, sorge il bell’Oratorio del Maraschion, a base absidale del ‘700. Nel 1906 risulta di proprietà della famiglia Pillon. Attualmente è proprietà della famiglia Bedin. All’interno sono le immagini di Sant’Antonio, della Madonna e di San Bernardino.
Scendendo, lungo la strada, dopo 20 metri a sinistra, una carrareccia conduceva (e conduce) alle abitazioni di Acco Giuseppe detto Bepi Aco e di Pillon (Vincenzo-Cencio Moche e Domenica Parise – vedi Acco Monterosso); sulla destra, invece, una stradina conduceva alla casa di Giuseppe e Antonio Faccin detti Gripia.
Tornati alla strada principale, scendendo per circa 20 metri, si incontra sulla sinistra la corte dei Rigolon.
Vi abitavano Rigolon Giuseppe (detto Coca), Aramini, un altro Rigolon e anche un Bedin.
“Storia di famiglia” Rigolon Bortolo (Coca) e De Rossi (Gasparon)
Lasciata Corte Rigolon, scendendo, si incontrano altre due carrarecce, una a destra e una a sinistra. Quella a destra conduce alla casa della famiglia Bon (detto Finato)
“Storia di famiglia” Bon Luigi (Finato)
La stradina a sinistra conduceva all’abitazione dei fratelli Cielo.
“Storia di famiglia” Cielo Luigi
Uno, Alessandro, si occupò della gestione dell’osteria sita nell’edificio Pillon e di proprietà della famiglia Guarda. Morti i vecchi, anni ‘50, l’ultimo figlio rimasto a Maraschion decise di trasferirsi a Modena. Affittò la fattoria ad Aldo Bertocco e, successivamente, nel 1965 gliela vendette.
“Storia di famiglia” Bertocco Achille e Abramo
Oggi. La fattoria è di proprietà Bertocco. Dalla carrareccia dei Bertocco in poi, la strada, tutta curve e con accentuata pendenza, non offre altri itinerari e raggiunge il fondo valle.

La collina su cui sorgono le case sopra nominate, è un giacimento di ammoniti; la terra risale al Devoniano inferiore; e il suo colore rosso è dovuto alla pigmentazione delle ammoniti stesse, grossi molluschi Cefalopodi (vissuti 400 milioni di anni fa).

I Faccin
I Faccin detti Gripia.
Sui Gripia se ne raccontavano tante e spesso la famiglia Faccin del Maraschion aveva dato argomento di pettegolezzo ai Filò.
Erano tre fratelli, Giuseppe, Antonio e Margherita, dotati di buona intelligenza, di una discreta istruzione, probabilmente di un carattere un po’ chiuso. Giuseppe aveva studiato in seminario e, successivamente, seguito alcuni corsi di medicina. A suo dire era mezzo prete e mezzo dottore.
Antonio, rimasto a casa con i genitori, si occupò dei quattro campetti di proprietà. Fu l’unico a sposarsi. Prese infatti in moglie una donna da San Vito. Margherita si era fatta suora; ma poi, innamorata di un dottore ne aveva avuta una figlia ed era tornata a casa.
L’abitazione, da allora, divenne anche chiesa e ambulatorio. Al di là delle stranezze di cui si rendevano protagonisti e delle favole imbastite su misura da qualche buontempone, i Faccin detti Gripia restano tre figure di grande dignità; un po’inselvatichite, forse. Ma, poveri com’erano, non ebbero mai a chiedere l’elemosina.
Mi ricordo Giuseppe e la sua carriola. Per concimare i campi, visto che non avevano bestie, andava a raccogliere gli escrementi animali lungo le strade, durante tutto l’anno; accumulava quindi il concime per utilizzarlo a primavera. Prendeva, così, due piccioni con una fava: aveva il concime gratis e teneva pulite le careggiate. Le iniziative ecologiche non sono una scoperta dei nostri giorni.

Celestina Rigolon
Celestina Rigolon, detta “la Gasparona”
I Rigolon del Maraschion erano contadini: campi di monte, terra buona da uva e da vino, ciliegi e fichi e tanta fatica.

Tuttavia, come per la gente del “Cao de Là”, la fatica non li spaventava. La seconda guerra mondiale fu un ulteriore aggravio.
In barba alla Tessera annonaria, comunque, in casa Rigolon non si pativa la fame.
Era Celestina l’artefice infaticabile del “provvedere”. Così a quella dolcissima signora, dagli occhi nocciola e dalle brevi mani di contadina, riusciva di regalare un cartoccino di zucchero, perché il latte della mucca era dolce di suo; un cartoccino di farina, perchè era scivolata una manciata in più di chicchi di granoturco; regalava la frutta.
In cambio riceveva aiuto per i figli, qualche favore, a volte solo grazie. Di lei mia nonna aveva a dire che aveva “el core come ‘na sesta”.
Proferito da mia nonna era un grande complimento!

Angela Caicchiolo
Veniva dalla Famiglia Caicchiolo di Via Muraroni. Faceva un po’ di tutto: la mondina quando c’era lavoro nelle risaie di Vercelli, la spigolatrice, la raccattatrice di legna.
Il bisogno della famiglia la spingeva ad andare anche per elemosina. La chiamavano la Gingia.
Nel suo piccolo, tuttavia, fu un capolavoro di mamma, un abisso di affetti. Quando ormai i figli erano cresciuti, continuò a faticare per lasciare loro un segno tangibile.
Alla sua morte, i rampolli rinvennero in Banca un gruzzoletto da dividere in parti uguali: l’ultima carezza.

I Bon
Li porto davanti agli occhi, i componenti della famiglia Bon. Quei figlioli alti due metri, quelle ragazze belle e gentili e quei due genitori, avanti negli anni, riveriti e ubbiditi, nel rispetto e nella sacralità della famiglia e delle tradizioni.
Casa Bon (Finato per la Contrà) era il Paradiso Terrestre. Vi maturavano tutti i frutti allora conosciuti in paese e consumati con quell’avidità che detta il bisogno di cibi freschi, dolci e ricchi di elementi preziosi: ciliegie, fragole, pere sampierole, mele sampierole, fichi, lazzeruole, pesche, pere, mele dall’olio, susine, albicocche, burbe….
Dai Bon andavo con mio padre la domenica. L’erta salita del Maraschion, oggi via Isonzo, non spaventava. Si saliva a piedi, lentamente, nei giorni di fine maggio, tra campi di frumento “varo”, fiordalisi ai bordi, gladioli selvatici qua e là; e, oltre, la visione di splendidi ciliegi stracarichi di neri frutti tentatori.
La dolce Teresa ti accoglieva sulla porta con la stessa deferenza con cui avrebbe accolto un re: un sorriso luminoso e caldo, due occhi sfilacci di cielo. Sopra il grande tavolo, attendeva un cesto di ciliegie.
Fuori, sui campi di monte, distese di frumento e di granoturco; filari di viti, tirati e spampinati con la massima cura; un orto dove si coltivava ogni ben di Dio.
Dentro, un sorriso timido e dignitoso che copriva la fatica: quella dei Bon fu la sola famiglia di Brendola che perseverò, fino agli anni ’80, nel cimare il sorgo dopo la fioritura: un lavoro estenuante fatto a mano, per rendere migliore il prodotto.
Furono gli ultimi feudatari di un luogo incantato, dove l’acqua dello Scaranton e la terra resa rossa dalle ammoniti avevano creato un sito senza tempo, quasi una chiesa la cui cupola tocca le stelle.
La sera, tutte le sere, in casa Bon si recitava il Rosario: preghiera e lavoro; gratitudine a Dio e sudore.
Quando i vecchi genitori invecchiarono, la corona passò a una delle figlie e la buona abitudine continuò e continua ancora, anche se nella casa, oggigiorno, vivono solo due sorelle.  

Aldo Bertocco
Li chiamavano i “Bramiti” per via di quel nonno Abramo, Bramo, piccolo di statura e riformato alla leva, ma gran lavoratore e con discreto fiuto negli affari.
Peregrinano di qua e di là, a San Valentino, prima in affitto e poi come proprietari. Sono ai Mulini e acquistano casa e stalla dei Converti; arrivano al Maraschion e acquistano casa e stalla dei Cielo. Se le meritano tutte le loro conquiste. Basta guardarlo in viso Aldo, ormai ottantasettenne: mente lucida e sedia sul proscenio della Conca: un premio alla fatica e al buon senso; al lavoro a misura d’uomo.
Ma quelli anni passati in affitto i Bertocco non li hanno dimenticati. Non c’era acqua al Maraschion e bisognò chiedere a Giovanni Dalle Nogare la carità di attingere a una sua fontanella, a mezza costa, dalla parte del Monterosso.

 Resta, nella memoria, anche l’anno in cui la casa non era agibile: fatiche sulla terra sotto il sole o al gelo di giorno e sconforto la sera, lungo viottole attraverso i campi, fin dai Gaiga, dove la famiglia andava a dormire.
“Eravamo fortunati perché c’era la salute!”
Oggi i figli guardano sorridendo i vecchi: sembrano una favola quei racconti.

Frigo Angelo “Angelin Paela”
Campi, bestie, casa: Angelin era un vulcano. Lo svegliava la Stella boara, prima che l’alba si stropicciasse gli occhi; il sole ronfava da un pezzo la sera, quando l’uomo si metteva con le gambe sotto la tavola.
Al Maraschion (Via Isonzo) lo ricordano in tanti: un gigante alto 1 metro e novanta, con due pale al posto delle mani e il passo lungo. Era il ritratto della salute e godeva di un sacco di amici.
Regnava al Cao de là: buon avversario nel gioco delle carte o delle bocce; buon amicone.
Avevi bisogno di aiuto nel trasporto di materiale, o nelle faccende dei campi? Veniva Angelin a dare una mano.
Angelin era anche impegnato nel trasporto della pietra bianca che, in massi considerevoli, costituiva il frutto dell’attività estrattiva alla “Priara”.
All’uopo possedeva un carro grosso e rinforzato, con assi potenti e ruote robuste.
Della strada del Maraschion o di quella delle Grotte- Laste (Via Postumia) Angelin conosceva ogni granello, ogni piccola curva, ogni possibile aggancio.
Stessa cosa si poteva affermare per i suoi buoi, due bestie intelligenti e mansuete, pronte al ”Iiii “ del padrone. Sicché ad Angelin non era mai successo di ribaltare carretto e carico giù per la ripida scarpata della Priara!
Al ritorno dal viaggio di consegna, poi, l’uomo era solito esercitare il suo spirito di devozione, rendendo onore ai numerosi “capitei” disseminati lungo il tragitto.
L’ultimo era quello dei Guarda, al crocicchio di San Valentino. Lì si consumava un rito. Angelin scendeva dal carro, mandava un fischio e poi entrava ad incontrar gli amici.
A loro volta, i buoi, ricevuto l’ordine, si avviavano verso casa, su per l’erta salita del Maraschion: era lassù che stavano acqua e fieno.
Ma Angelin entrò nella storia di Brendola per un’altra faccenda.
Quando nel 1941 si trattò di trasportare la Statua di San Michele, scolpita sul posto, dalle Grotte di San Gottardo al Cerro, molti conducenti di buoi, interpellati, declinarono la propria disponibilità. Il pericolo era grande, il rischio di ribaltamento pure. Occorrevano dodici buoi e sei conducenti: i buoi c’erano, ma i conducenti nicchiavano.
Allora si fece avanti Angelin: “Ghe vago mi” disse con un certo cipiglio “Gnente paura! Vorà dire che sa go da morire, a morirò par San Michele!”
Fu lui a dettare i modi, a stabilire i tempi, a controllare ceppi e ruote. Lo aiutarono uomini altrettanto abili: Silvio Bisognin detto Rosso e i fratelli Refosco. Ma la regìa fu sua. Alla sera, all’osteria Guarda, Angelin risultava particolarmente silenzioso. Non gli andavano i complimenti della gente. Quando non ne poté più, mise un punto fermo alla faccenda: “In fra angeli se se capise…” e fu tutto.