Via Monte Grappa
Via Monte Grappa è un lungo serpente che distende le proprie spirali a ridosso dell’unghia dei Monti Comunali. I calcari grigi del periodo Miocenico, posti in faccia a Mezzogiorno, con vista sulla Conca del Palù, contendono agli orni e agli olmi il diritto di bere il sole. Macchie di bosco, ma anche arbusti (ginepro, scotano….) punteggiano qua e là la ripida scarpata che, sulla sinistra, appoggia Via Monte Grappa , “la Strada Nova”. Nata circa 100 anni fa, la strada ha segnato un mutamento nelle abitudini dei Brendolani.
La Contrada di San Valentino, prima della Grande Guerra, contemplava i suoi confini sui Monti Comunali e gli abitanti della zona Cazzale coltivavano una stretta familiarità con quelli della Valle sottostante.
Numerose capezzagne, viottole e sentieri ,“strodi”, tenuti puliti e rinforzati con legno e pietre, permettevano di raggiungere la zona di Salve Regina, Perarolo e Monteberico a piedi.
Chi aveva mezzi sceglieva l’arteria “Veronese” o il percorso del Melaro per Altavilla; chi nutriva il caval di San Francesco prendeva la via della Collina.
La Strada Nova fu un taglio nel contesto relazionale della Comunità. Probabilmente aperta su preesistenti sentieri, diventò una specie di divisorio. Alcune case e larghe fette di terra “strappata” al Monte Comunale rimasero di là, sulla sinistra, realtà staccata dall’originale contesto.
Tra le Famiglie che in qualche modo subirono un cambiamento nelle relazioni con la Comunità furono i Nicente, i Pilotto e i Casalatina.
Bernardo Rigolon è approdato in zona negli anni ’50. Con la moglie Lelia si è costruito la casa all’ imbocco della strada dei Valente.
“Storia di famiglia” Rigolon Ludovico (Pierela)
Poco prima, la vecchia Corte dei Caldonazzo e dei Rossi, sulla destra, è pressoché deserta ; lungo la stradina di adduzione sono sorte le case Bisognin.
I Nicente
Non abitano più da tempo a Brendola: ma di quella casetta con il fianco sulla strada, alta e bianca, ho un ricordo tormentoso. Abitava lì una mia compagna di scuola, dagli occhi neri e i capelli d’ebano, una bambina raramente allegra.
Giocava nel cortile della scuola con entusiasmo quasi eccessivo, un’esuberanza che non si poteva ignorare. In classe, stava taciturna e se la cavava benino, ma di rado le veniva rivolta una lode. A me piaceva la sua compagnia, le cose che lei raccontava e che inventava.
Se ben ricordo si chiamava Pierina. Poi, un giorno, alcuni anni più tardi, i Nicente se ne andarono. Non rividi più la mia amica.
La sua casa, oggi, abitata da Bisognin Marco e Cecchetto Letizia, ha il potere di riportarmi indietro negli anni. Allora, seduta sul muretto della scuola, cercavo di leggere i segreti nascosti dietro quegli occhi neri, quasi sempre tristi.
I Valente
I Valente della mia infanzia erano persone riservate.
Riuscivano a intimidirmi, la domenica, sul Sagrato di San Michele, con i loro vestiti curati e talvolta ricercati.
Alti, belle persone con un sorriso timido, dialogavano in modo parco e, spesso, se ne stavano per conto loro. Ricordo, dei vecchi, Margherita, la moglie di Ferruccio Castegnero, dal sorriso malinconico e la bella Armida, dai capelli ramati, mamma di Rosetta, Franca e Gelmino Frigo.
L’altro Valente, per varie circostanze legato alla cerchia dei miei conoscenti, fu Erminio, il marito di Luigina Chiarello (mamma di Flavia Valente-Brendolan e di Carlo).
Abitavano una splendida casa, racchiusa tra bosco e vallette coltivate, cui si arrivava e si arriva tuttora, per una strada sterrata, pulita e ben tenuta, aperta dietro l’abitazione di Bernardo Rigolon.
Campi di sorgo da un lato, campi di sorgo dall’altro, un sorgo di collina asprigno fin dal gambo; a ogni curva una visione diversa del colle soprastante e del bosco a destra: un paesaggio che si incontra in qualche vecchio film. Lungo il ciglio sulla sinistra, una muretta a secco, sovrastata da alberi da frutta, tratteneva la terra di monte, sul ciglio di destra una distesa di centaurea e malva stava a salvaguardia di altri alberi da frutta. Più avanti, quasi presso la casa, tacevano i campi e parlava il bosco: alte colonne di legno, candelabri e volute sarmentosi; e un raccoglimento di chiesa, un silenzio fatto di sorpresa e ammirazione. Accompagnava la voce del vento un timido chiocchiolìo di fonte; appena un sussurro.
Lassù ero arrivata con mia madre, un ’estate, in passeggiata mattiniera.
La lunga strada bianca sembrava non finire mai. Era fine-agosto e le prode erbose già si vestivano di rugiada. Dai filari delle viti, intravvisti oltre il granoturco, occhieggiavano grappoli lunghi di uva ancora verdognola: “E’ garganega”spiegava mia madre “ha bisogno di tempo”.
A destra e a manca il seccume, lasciato dall’estate, nutriva quel sentore di malinconia che già la stagione annunciava nella frescura dell’ora.
Gli alberi di fico si erano trasformati in lunghe braccia generose; i meli piegati dal peso dei frutti, colorati gazebo, dipinti di porpora.
Poi, finalmente, era apparsa la casa, bianca di pietra dei Colli, severa. Le faceva da guardia il bosco.
I convenevoli li lasciai a mia madre.
Io stavo in muta ammirazione davanti all’edificio, come davanti a una regina. Non mi sarei meravigliata se avesse parlato.
Chiusi gli occhi e immaginai le notti lassù: lunghe e bisbiglianti, venate di mistero e di fascino; pensai ai crepuscoli riversantesi a fiotti, come l’acqua della fontana, tra i costoni e gli alberi, vestiti di grigio silenzio; e fui presa dallo sgomento del mistero.
Poi, nel tempo, ci fu la diaspora. Rimase solamente Angelo con la moglie Chiara Bisognin. La proprietà fu smembrata e l’abitazione venduta.
L’ultimo dei Valente, innamorato del sito, è Antonio, figlio di Angelo. Si è costruito, lì, una nuova casa.
“Storia di famiglia” Valente Angelo
I Pilotto
La porzione di mappa identificata col nome Cazzale, comprende territorio in quel di Brendola e in quel di Perarolo. La famiglia Pilotto abitava una casetta posta su un piccolo pianoro, a destra della strada attuale, lungo il solco della Valle. Il nome della località era passato poi agli abitanti. A Brendola li conoscevamo tutti per Cazzale.
Proprietari di una fetta di bosco, sotto la strada per Perarolo, coltivavano i campi che, in vallette gradenti, giungevano fino al Gazzolo.
Vivevano modestamente, ma non erano poveri. Ciò che mancava alla casa era l’acqua. La fontana di risorgiva era generosa per tre stagioni l’anno. Durante la quarta, l’estate, il getto diminuiva fino a ridursi a un filino. Allora bisognava attingere altrove.
Le ragazze Pilotto, quella viottola che conduceva alla fontana dei Frigo o a quella dell’Alma, la conoscevano fin troppo bene.
Arconcello in spalla e secchi vuoti, scendevano verso valle. Giunte alla fontana dell’Alma, riempivano i secchi, li appendevano all’uncino dell’arconcello (seci e bigolo) e affrontavano la strada di risalita.
Giunte a casa e deposto il fardello, osservavano quanto era rimasto nei secchi del prezioso liquido: a volte, ma raramente, non ne avevano versato un goccio ( spanta gnanca ‘na lagrima!…).
Leucadia Pilotto lo ricordava con orgoglio, nell’ultimo periodo di vita, alla Casa di riposo.
Morto Paolo,il Capofamiglia (un reduce benemerito della Prima Guerra mondiale), i figli si dispersero, la proprietà subì un lento abbandono e la casa fu chiusa.
“Storia di famiglia” Pilotto Paolo
Oggi. La casa sul piccolo pianoro è stata occupata dagli Scout.
I Casalatina
Fu mio padre a portarmi la prima volta lassù, ai Vegri, nel regno di Bepi Brondin, Giuseppe Casalatina, per vedere le capre. Era primavera e la passeggiata si rivelò dura.
La landa che si offriva agli occhi del visitatore era a dir poco inospitale. Come potesse esserci qualcuno in quei luoghi, per me, era un mistero. La zona, martoriata, durante la Grande Guerra, era rimasta incolta, “ vegra”. Vi allignavano magri arbusti di scotano, siepi invalicabili di rovo, piante di ginepro. Il resto era sterpaglia, erba secca, buona per le capre.
Allora, come oggi, la strada sterrata, una carrareccia, serpeggiava attraverso il territorio, fino ad arrivare all’abitazione, una casa rurale, quella dei Casalatina. Due siepi di tamaro e luppolo (tanoni e bruscandoli), due cigli di pervinche facevano ala.
Non eravamo attesi. L’abbaiare del cane fece spalancare la porta. Nel vano si stagliò un gigante, dai capelli arruffati e dal severo cipiglio. Dietro, a una voce, si materializzò una donna vestita di scuro, con il grembiule da casa e le gonne quasi fino alla caviglia, come d’uso allora; poi vennero il pane biscotto e il vino dell’accoglienza nella cucina; quindi il portico cosparso di paglia, la stalla con il grande caprone, il becco da riproduzione, le capre, una decina. I ricordi si affastellano.
Da allora ogni anno facevo visita ai Vegri. Solamente mutavo stagione. Alla fine di settembre, o ai primi di ottobre, le due capre di casa diventavano feconde. Mia madre ed io, una capra per una, le conducevamo lassù per farle poi figliare e avere il latte.
Il sole del primo pomeriggio riscaldava ancora l’aria. La strada di Strabuseno, Via Monte Grappa, al seguito di una capra, diventava un gioco; e quelle due siepi, stracariche di nocciole, valevano il tesoro del Corsaro Nero.
Al ritorno, il sole appena incollato dietro il monte, rendeva l’aria traslucida. Gli afrori dell’ultima erba penetravano la pelle, mentre allargavano all’infinito quel mondo surreale.
Non sarei mai scesa. L’ora, volgendo alla sera, spronava mia madre al ritorno. Io mi perdevo tra i noccioli (noselari), i pruni carichi di prugnoli (spini carghi de bronbiui), il viola delle malve e della centaurea.
Tornavo a casa con un sacchetto di nocciole, un mazzo di erbe appassite e la bocca come carta vetrata per l’asprezza dei prugnoli: peggio degli animali allora-allora lasciati.
Giuseppe Casalatina visse a lungo lassù, ai Vegri. Privo di buoi, ai tempi dell’aratura, attaccava le corregge del vomere alle spalle, mentre la moglie reggeva la barra dell’aratro. Su quei campi di monte, negli avvallamenti e nelle depressioni delle doline, coltivava frumento e granoturco, ortaggi e piante da frutto. Aveva mani d’oro; ma la sua passione erano le capre.
Quel maschio di capra, bellissimo, (al di là dell’afrore…), con due potenti corna, alimentava l’orgoglio di Giuseppe. Sembrava ubbidirgli. Una volta, tuttavia, l’animale gli si ribellò e mancò poco alla faccenda per tradursi in tragedia.
Lo scherzo peggiore, a Giuseppe Casalatina, comunque, lo giocò il suo corpo: un male inguaribile gli tolse ogni sapore del vivere e il buon gigante accettò di spegnersi nella sua casa, tra cielo e terra.
Dai silenzi ammaliatori dei Vegri passò così a silenzi più vasti.
“Storia di famiglia” Casalatina Giuseppe
Oggi. Ai Vegri vive una nipote di Giuseppe e Marina Bedin, i Casalatina dei miei ricordi. AnnaMaria Faresin, sposata a Renato Ceron, è conosciuta come la moglie del Sindaco. Signora gentilissima, una Casalatina vera, vive orgogliosa della propria famiglia d’origine.