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UN FIUME DIMENTICATO

GIUSEPPE VISONA’

L’acqua è un l’elemento vitale per l’uomo, costituendo il 70 per cento del suo peso corporeo e dovendo essere assunta nella quantità di almeno due litri al giorno direttamente o attraverso i cibi. L’acqua dolce nasce per evaporazione dell’acqua salata del mare e degli oceani. La quantità di acqua dolce presente sulla terra dipende quindi dal complesso delle condizioni climatiche e dall’equilibrio del pianeta. Un ambiente che noi abbiamo violentato e per certi versi distrutto eliminando piante, specie animali, canali di raccolta, con variazioni climatiche tali che nessuno sa prevedere quali conseguenze future produrranno sulla natura e la vita.

La nostra civiltà assegna alle cose un valore in base al prezzo. Finora l’acqua ha avuto un costo quasi zero per cui dimentichiamo in fretta la sua importanza ed essenzialità. Ecco perché dimentichiamo un fiume, le sue origini, le sue funzioni e non siamo tanto attenti alle trasformazioni, ai cambiamenti, alla conoscenza e all’utilizzo dell’acqua. Le nostre falde si sono impoverite per il prelievo smodato ed ogni giorno registriamo un abbassamento della falda freatica con la scomparsa di risorgive, ruscelli e fontane. L’acqua è stata per l’uomo la fonte primaria di energia e di sviluppo di tecniche di produzione a partire dai mulini che tanto hanno macinato per le nostre tavole. L’acqua è l’amalgama fondamentale del nostro corpo, ma è stata anche il primo elemento della società. Attorno all’acqua sono nati i primi scambi, i primi commerci, i primi centri abitati, le prime tecniche inventate dall’uomo per imbrigliare, utilizzare, incanalare le potenzialità e la forza della stessa.
In un’epoca in cui un malinteso sviluppo industriale, agricolo ed urbano rischia di danneggiare quantitativamente e qualitativamente l’acqua, chi vuole conoscere un paese non deve fare altro che percorrere le rive dei suoi fiumi: esse possono raccontare un sogno meraviglioso, una civiltà e una storia lunga un fiume.
Sulle acque del fiumicello aleggiano le più antiche leggende del nostro territorio, sulla superficie dell’acqua che riflette il mondo esterno si fermano i dubbi e le nostre curiosità, nella profondità ora limpida e cristallina, ora torbida ed illeggibile si celano tanti segreti della vita di tanti uomini che ormai non sentiamo più narrare. Per secoli l’acqua ha significato la civiltà, che alle soglie del terzo millennio sembra davvero in crisi se non sa più provvedere alla difesa di un bisogno primario come l’acqua.

IL FIUMICELLO BRENDOLA

La locazione geografica ed il percorso compiuto dal fiumicello meritano alcune informazioni esplicative come nei sacri testi geografici, anche in considerazione della sua presenza da tanti anni. Nei terreni fortemente permeabili delle alte paleovalli dell’Agno e del Chiampo l’acqua delle piogge e delle sorgenti, abbandonata dopo breve tratto la superficie inizia, un lungo cammino nel sottosuolo creando vene acquifere rintracciabili alle più diverse profondità, ma nel procedere verso sud, verso i Berici, dato il lieve declinare , a mano a mano che il terreno perde di grossolanità ed alle ghiaie, alle sabbie si sostituiscono le argille alluvionali, l’acqua viene a trovarsi di fronte a veri e propri sbarramenti che non le permettono di avanzare oltre, per cui è costretta ad affiorare: ecco le risorgive, sorgenti di contatto. Le risorgive sono sorgenti di contatto che si localizzano tra uno strato di roccia permeabile ed uno di rocce impermeabili. Il fiumicello riconosce questo tipo di formazione.
Il Fiumicello Brendola ha origine da un’area denominata le “Dose”, posta in corrispondenza dell’attuale fabbrica Zorzetto, in via Einaudi, oltre l’autostrada Milano – Venezia, sorgente ormai asciutta e sostituita dagli scarichi del depuratore di Montecchio Maggiore, collocato nel retro del capannone della società MBS.
Dopo aver attraversato il nostro territorio con ampie anse, raccogliendo gli scarichi di numerosi affluenti, giunge dopo circa 12 chilometri, attraverso la campagna di Meledo e Sarego, a confluire presso Lonigo nelle acque del Torrente GUA’ che, a sua volta denominato Frassine e Gorzone, sbocca nel mare Adriatico a sud di Chioggia.
E’ un fiume antico, anche se di modeste dimensioni e portata, e come tale riceve una serie di affluenti e canali collettori che contribuiscono a mantenere il flusso costante durante tutto l’anno.
Prima di uscire dal nostro territorio riceve quali affluenti di

destra :

  • LA ROGGIA SIGNOLO all’altezza del ponte di ferro sulla statale 500 Lonigo – Vicenza, dopo aver attraversato contrà S.Giacomo, famosa per il ritrovamento di numerosi reperti archeologici
  • IL BRAGGIO, poco prima del molino Bonamin al Vo’, che attraversa la campagna dopo essere nato in prossimità di villa Valle a Casavalle
  • LA RISAROLA, nata dalla Fonte dell’Orco o Boje di Bertozzo, che dopo aver attraversato la campagna della Fangosa sfocia 150 metri a sud della strada della Pila, in vicinanza della chiusa portando acqua anche oltre il fiume
  • L’ANGUIZZOLO, che trae origine dalle risorgive medesime o Boja dei Latari e da altre limitrofe
  • ROGGIA S. GOMEO O RANZOLA, che segna il confine con Meledo e che raccoglie acqua di varie risorgive e fontanazzi

sinistra:

  • FOSSO GOTORO proveniente dalla zona Soastene e Goia all’altezza del molino Campagnaro dopo aver attraversato la strada provinciale o via De Gasperi
  • IL RIO DELLE SPESSE, proveniente da contrà Valle
  • SCOLO E ROGGIA DEGORA, che dopo aver raccolto le acque del “Cao de Là” sfociano ai Ponticelli di S. Vito

ASPETTI GEOMORFOLOGICI INIZIALI

Quando i Colli Berici e Lessini emersero dal mare e le acque che occupavano la laguna tra loro compresa lasciarono affiorare la terra comparve un paesaggio grossolanamente simile alla attuale configurazione geografica del nostro territorio. Due profonde incisioni, in seguito denominate Valle del Chiampo e Valle dell’Agno, divise da una catena di monti conosciuti come Monte Faldo, Cima Marana, Cima Campo Davanti, Monte Granolon, terminavano ai piedi dei Colli brendolani.

Complesso di scogliera oligocenico (da Frost, 1981)

L’acqua defluiva dalle cime trasportando ghiaia, sabbia e limo con notevole violenza scavandosi un alveo nel fondovalle, dove i vari torrentelli confluivano dando origine ai due noti corsi d’acqua, oggi denominati Torrente Chiampo e Torrente Agno – Guà. Il territorio di Brendola, che si trovava al margine occidentale dei Colli Berici, rivolto verso i Lessini faceva da scolo a questi due torrenti. Il territorio brendolano era interessato infatti da fenomeni di ristagno delle acque e di impaludamento, in particolare nell’area denominata “pianura di Brendola” o meglio nota come “Palù al Cao de Là”, a causa del dislivello tra i terreni, più bassi posti nell’insenatura dei Colli Berici tra Brendola – Meledo, e la pianura esterna oltre Lonigo innalzatasi a causa dei depositi di materiale alluvionale dei fiumi sopra descritti.

DALLE ORIGINI ALLA DOMINANTE

L’archeologia ha documentato, con il ritrovamento di numerosi siti collinari ed in pianura, il passato di Brendola.
Abitare in pianura e trarre da essa sostentamento non è stata cosa facile per l’uomo che ha impiegato secoli di lavoro per imbrigliare le acque e utilizzare la terra. I numerosi ritrovamenti, di cui il più importante risale al Neolitico, seconda metà del V millennio riguardante una strada in località Soastene, sono stati catalogati ed elencati nella guida turistica realizzata dall’Associazione Laboratorio Brendola.
Dai materiali recuperati si deduce che le presenze di epoca romana siano non solo numerose, ma anche collocate in un arco di tempo molto ampio.
Con la fine dell’impero romano le zone pianeggianti vengono abbandonate, forse per rottura degli equilibri idrici, e gli insediamenti rimangono solo nelle zone più elevate. Ritorna così il paesaggio tipico del periodo protostorico.
Solo con l’inizio del Medioevo riprendono gli interventi di bonifica.
Voglio, a conferma, ricordare la scoperta lungo via Dell’Asse, ai piedi del Monte dei Martiri di una serie gigantesca di canalette di drenaggio, rinvenuta qualche anno fa’ nel terreno di Ghiotto ad opera del dr. Armando De Guio, archeologo dell’Università di Padova, degno di merito per i suoi studi brendolani.
Questa nostra zona pianeggiante formatasi nel quaternario in seguito ad un sovralivellamento che ha diviso i Berici dai Lessini formando un sinclinale, poggia su strati impermeabili di marne e basalti. L’azione di deposito dei corsi d’acqua provenienti dai Lessini ha con le alluvioni ricoperto lo zoccolo, la base dei nostri colli. Questi depositi sono costituiti da lenti più o meno estese di materiali limoso argillosi e ghiaioso sabbiosi che si alternano in senso verticale. La composizione di tali strati alluvionali riflette quella delle rocce affioranti nei bacini montani del Chiampo e dell’Agno – Guà, vale a dire calcari, dolomie, basalti e rari frammenti di scisti cristallini. Questa valle che raccoglie tali prodotti alluvionali era profonda qualche centinaio di metri. Il sottosuolo di questa pianura che si stende tra Brendola e Montebello Vicentino è ricchissima di acqua a profondità comprese, a seconda dei luoghi, tra pochi metri e 40 metri circa dal piano campagna. Le falde acquifere sono sia libere sia artesiane. Risulta dagli elementi raccolti in loco e dalle stratigrafie sicure di pozzi, che fino a 40 metri di profondità sono presenti quattro – cinque falde ubicate prevalentemente in strati ghiaiosi e sabbiosi separate da livelli limoso argillosi. L’esistenza della paleovalle garantisce quindi la presenza di tanta acqua a livelli più profondi.

Stratigrafia del pozzo perforato dalla DITTA DALL’ORA C. di Dall’Ora Attilio per il comune di Brendola

La stratigrafia della pagina precedente è molto eloquente e rende conto della situazione geologica brendolana.
Ai fini del nostro studio bisogna spiegare la denominazione di Fiume Brendola alle acque che scorrono nel territorio di Brendola. Infatti quando si parla di fiume si intende un corso d’acqua perenne e costante, mentre per torrente viene inteso un corso d’acqua a caratteri incostanti e improvvisi. Anche se la storia del nostro Fiumicello è legata ai Torrenti Chiampo e Guà, le sue origini sono, come già detto, in Brendola.
E’ utile spendere alcune righe per i bacini montani di origine dei due torrenti, costituiti da due conche di erosione ad imbuto formate prevalentemente da rocce del preterziario. Sono rocce impermeabili di micascisti, di arenarie, di porfiriti, di basalti accompagnate da rocce poco permeabili come calcari triasici ed oligocenici non carsici, dolomie a stratificazione quasi orizzontale. Dopo questi bacini alti, più in basso compaiono delle zone, comprendenti invece rocce permeabili come i calcari dell’eocene superiore e dell’oligocene inferiore. Questa conformazione, aggravata dalle condizioni franose dei materiali costitutivi dei bacini alti, spiega le improvvise e rovinose piene dei torrenti. Nello stesso tempo la minore estensione delle rocce impermeabili nelle sezioni inferiori, la minor pendenza dei corsi d’acqua, l’ampio letto di materiale alluvionale, giustificano il fenomeno di assorbimento delle portate di magra dei due torrenti. Queste acque che scompaiono vanno infatti ad alimentare le falde sotterranee che riemergono molto più a valle come acque artesiane, come risorgive, come origine del Fiume del nostro territorio.
Evidentemente oltre all’acqua, che dà origine al fiumicello, siamo debitori ai bacini alti dell’Agno e Chiampo anche della fertilità dei nostri terreni, soggetti alle secolari alluvioni, che trasportavano alte quantità di anidride fosforica ed elementi fertilissimi di natura basaltica.
Chiuso il bacino montano, che presenta il caratteristico paesaggio dolomitico, all’altezza di Montecchio Maggiore ci interessiamo degli aspetti della rimanente paleovalle occidentale dei Colli Berici, in particolare del sottobacino del Brendola che convoglia le sue acque nel Guà a Lonigo. Infatti le portate del Guà nel periodo di magre invernali ed estive è determinato unicamente dai deflussi del Fiumicello Brendola che ha sempre avuto difficoltà a scaricarsi per la scarsa pendenza che conserva il torrente Guà (3,2°/°°°)
L’antica letteratura storico-geografica non riporta alcun cenno di corsi d’acqua attraversanti il territorio vicentino ed aventi i nomi che oggi usiamo. Solo verso il mille – milleduecento compaiono termini come “Flumini Novi”, “Gue”, Brendule. Nonostante la suddetta mancanza di notizie, alcuni scrittori del secolo scorso avanzano l’idea che, prima della catastrofica alluvione del 589 ricordata da Paolo Diacono, in seguito alla quale si ebbero importanti migrazioni di alcuni fiumi, l’Adige passasse per Cologna dove sfociavano il Chiampo ed il Guà.

“Di un diluvio e di un miracolo avvenuto nella basilica di San Zenone. In quel tempo si scatenò un diluvio di cui non si ritiene esserci stato l’eguale dai tempi di Noè. Terreni e fattorie diventarono sassosi magredi. Ci fu una grande moria sia di uomini sia di animali. Strade e sentieri vennero cancellati. E tanto crebbe allora il livello dell’Adige che a Verona l’acqua sfiorava le finestre superiori della basilica del beato Zenone. Eppure come scrisse Gregorio, divenuto poi papa, nella Basilica di acqua non ne entrò affatto. Questa calamità si verificò il 23 ottobre, ma con tanti lampi e tuoni quanti raramente se ne hanno d’estate”.

PAOLO DIACONO

Nato a Cividale nel 720, discendente di una delle famiglie longobarde scese dalla Pannonia in Italia al seguito di Alboino, scrisse, tra il 787 ed il 799, L’HISTORIA LONGOBARDORUM

Con le invasioni barbariche le condizioni idrografiche si riaggravano, più per l’abbandono delle opere che per il peggioramento climatico, fino all’arrivo dei Benedettini alla corte di S.Vito, verso l’ottavo secolo. Riprendono i lavori con la costruzione delle Degore a scolare il Palù. Numerose sono le citazioni nel Libri dei Feudi e nei Balanzoni del 1514, come rilevato da Vittore Bellio nella sua ” Limnologia medievale della regione dei Colli Berici”. Nel 1321, quando Vicenza era sotto il dominio scaligero, la Podesteria di Verona decise che le acque dell’Aldegà venissero deviate nell’Alpone, ma in realtà non si realizzò tale ordine perché troviamo che nel 1380 gli Scaligeri fecero scavare presso Montebello Vicentino una inalveazione, che sottopassava con apposito ponte la strada Verona – Vicenza. Più tardi il Chiampo e l’Aldegà finirono nell’Alpone, mentre il Guà dopo aver raccolto il Fiumicello continuò per la strada che percorre ancora oggi.
Con le famose dedizioni a Venezia inizia un periodo nuovo per le nostre terre e la stretta dipendenza del nostro bacino dal Torrente Guà .

DALLA VENETA SERENISSIMA REPUBBLICA AL CATASTO AUSTRIACO

La storia di tutto il territorio veneto è il risultato delle mastodontiche, durature e spesso sfortunate opere di difesa delle terre e dei suoi abitanti dalle piene ricorrenti, non solo dei grandi fiumi, ma anche delle rogge e dei fossati di scolo o sgrondo dei terreni.

Il 15 maggio 1505 veniva costituito il COLLEGIO SOLENNE DELLE ACQUE.

La Serenissima ha operato per secoli una attenta e saggia prevenzione e regolamentazione dei numerosi corsi d’acqua che solcavano il suo territorio. L’impegno di Venezia in materia di fiumi si può riassumere e dividere in tre grandi fasi :
la prima (fino al XV secolo),giustificata prevalentemente da scopi militari, si interessava dei fiumi che sfociavano in laguna,
la seconda (XV – XVII secolo) con lo scopo di evitare l’interramento della laguna curava le foci dei fiumi,
la terza ( XVIII ) si concretizzava nella cura degli argini, nel migliorare le possibilità di irrigazione, dell’ampliamento delle bonifiche; in altre parole si sistemavano definitivamente i corsi d’acqua nella situazione che è oggi di poco mutata.

La struttura organizzativa del Magistrato alle Acque

Per facilitare la comprensione dei riferimenti, si ritiene opportuno sintetizzare (dal più volte citato Rompiasio) la struttura organizzativa dell’amministrazione delle acque sotto la Serenissima.
Il Collegio Solenne era formato “dall’intero Eccellentissimo Collegio di sua Serenità”, “dai Savi ed Esecutori alle Acque”, “dagli Avogadori di Comune” e “da 40 senatori Deputati al medesimo”.
Il Magistrato alle Acque (da intendersi come un Ministero di oggi) era composto al vertice da due organi distinti: i tre Savi e i tre Esecutori. con compiti propri: i Savi, più accentuati quelli tecnici, gli Esecutori più marcati quelli di polizia (controllo e verifiche tecniche e fiscali).
Assieme esercitavano le funzioni consultive degli altri organi, anche legislativi (specie Senato e Dieci), amministravano la giurisdizione sia civile che criminale in materia di acque, controllavano l’andamento dei lavori idraulici e la polizia delle acque, con potere diretto su tutte le autorità “locali”.
La burocrazia addetta al dicastero era formata dai Ministri: primari erano il Segretario, l’Avvocato Fiscale e il Nodaro; secondari erano quelli addetti all’accertamento delle imposte e tasse ed alla loro esazione; Ministri d’opera erano i tecnici, al cui vertice era il Pubblico Matematico (carica ricoperta dai più illustri cultori dell’idraulica) ed alle cui dirette “dipendenze” erano tre Proti (rispettivamente soprintendenti alla Laguna, ai Lidi e ai Fiumi), coadiuvati da altrettanti viceproti.
I tecnici esecutivi erano tre Soprastanti (ai Lidi di Chioggia, Pellestrina, Malamocco e Caorle); e vari ministri “da fuori” (il Cavarseran del Piave. il custode dei Portoni del Dolo). Seguivano poi altri ministri dell’esecuzioni, con corpi di polizia autonomi e propri.

La cura delle arginature sia dei fiumi che dei canali era posta a carico, come “fazione o gravezza”, delle singole comunità rivierasche, che costringevano i proprietari di terre ad eseguire le prestazioni manuali ” pioveghi” di manutenzione e riparazione degli argini. Le rotte erano frequentissime. Solo gli interventi straordinari con carattere di utilità generale venivano finanziati dall’erario della Repubblica con i proventi dell’imposta sulle successioni affidata ad un magistrato particolare “esattor alle cinque per cento”. Tutte le opere ed interventi anche minori, come rettifiche, imbrigliamenti e regolazione, richiedevano un lungo e difficile iter burocratico con tempi lunghi e tantissima documentazione cartacea. Per questo motivo possiamo disporre di un grandissimo numero di mappe e carte che riproducono ampie zone del territorio con numerosi particolari ed elenchi nominativi. Questa importante cartografia ci permette di leggere la distribuzione, la tipologia delle case e dei paesi. A titolo di esempio, invito tutti a vedere la carta di Angelo Zanovello del 1681, lunga oltre 4 metri, indirizzata ai Provveditori sopra Beni Inculti, sul Fiume Chiampo.
Per tutto il ‘500 si assiste ad una specie di corsa alle bonifiche in cui la Dominante vede la possibilità di introitare, direttamente o per iniziative di privati, una cospicua fonte di ricchezza. Il governo auspicava un rilancio dell’agricoltura dato che ..”s’attrovano nel territorio di…Padova ,Vicenza….molti luoghi inculti, li quali quando si potessero adaquar ,escicar et irrigar, si ridurrano a buona coltura…”

Nel 1545 si istituisconoI PROVVEDITORI SOPRA I LOCI INCULTI DEL DOMINIO NOSTRO E SUPRA L’ADACQUAZIONE DEI TERRENI CHE NE AVESSERO BISOGNO” anche se ufficialmente il primo decreto relativo a questa Magistratura è del 10 ottobre 1556.
I criteri generali per la bonifica definiti “retratto” prevedevano in ogni caso che le spese fossero a carico degli interessati. Il protagonista essenziale della bonifica era il CONSORZIO tra i proprietari delle terre interessate al retratto, costituito spontaneamente o per ordine dei Provveditori.
Le spese venivano coperte con il “compatico che gravava su tutte le terre interessate al retratto e con il campadeghetto”, entrate ordinarie e continue per i consorzi.
Con l’istituzione della Magistratura sopra i beni inculti, i Provveditori ad essa preposti furono chiamati a dirimere controversie che prima erano di competenza del solo Rettore di Vicenza. Nel secolo XV ripetute sentenze avevano condannato la Comunità di Montecchio a …”rifare o a fare le necessarie riparazioni affinché l’acqua della Guà non scorra sui terreni di Brendola…” dopo aver visitato le proprietà dei nobili proprietari terrieri Valmarana, Anguissola e Ferramosca di Brendola. Leggiamo che l’ingegnere, con l’autorità concessagli dai Provveditori ordina anche …agli Huomini di Brendola di provveder al più presto ancor voi non foste obligati a far tal spesa, dandoli opere 100 et carriole vinticinque a spese vostre, che subito da poi finita l’opera sarete del tutto satisfati dalli consorti interessati per li loro beni sotoposti a tal danno…” Come potete capire le storie tra le due comunità sono antiche e testimoniano l’urgenza dell’intervento richiedendo un impegno anche ai danneggiati e chiamando in causa i consorzi.
A dare un ulteriore impulso alla riconquista delle terre e del territorio fu probabilmente l’introduzione del riso alla fine del XV secolo. La grande diffusione della sua coltura si ebbe attorno alla metà del 1500 e fu possibile grazie al forte impegno di capitali dei signori del luogo, ad una legislazione che favoriva il recupero dei terreni scarsamente produttivi e talora anche il disboscamento. Ricordiamo la presenza delle risaie Valmarana in località Ca’ Vecchie – S. Gaudenzio e di boschi in Arcomagna ( vedi mappe). Il bosco fluviale era certamente imponente lungo i greti soleggiati e doveva essere costituito da specie arboree pioniere ( salici, pioppi, ontani, aceri campestri ed oppio).
In quel tempo la popolazione si nutriva soprattutto di cereali minori come orzo, miglio e pertanto l’introduzione del riso fu fonte di miglior sostentamento. La coltivazione del riso segnò una svolta importante anche dal punto di vista tecnologico sia per la necessità di nuovi mulini sia per le modalità di coltivare il terreno con costruzione di argini e canali, delle “camere” e delle “caldane”
Ma tentiamo di leggere le mappe Brendolane, raccolte da Don Mario Dalla Via e in parte pubblicate nel libro ” Uno Sguardo su Brendola”. Ancora un caloroso plauso a Don Mario per la mole di documentazione raccolta che meriterebbe una pubblicazione specifica ed una maggior valorizzazione. La cartografia è un patrimonio di enorme importanza per capire la situazione del tempo.

Le immagini sono state caricate sul computer con uno scanner e quindi rielaborate colorando le tracce in bianco e nero delle mappe originarie per visualizzare i tracciati del fiumicello e della strada. E’ il risultato di un lavoro da dilettante senza pretese e a bassissimo costo. Mi scuso quindi con quanti sanno fare di meglio. Le mappe, come tutte le rappresentazioni iconografiche, servendosi di un linguaggio visivo, hanno sempre esercitato un fascino particolare, anche quando fino a non molto tempo fa, veniva attribuito loro unicamente un valore di illustrazione di saggi e pubblicazioni.

Carta mappa del 1588: principale pozze e sorgive del fiume.

 

CARTA DEL 1589

Il supplicante è il conte Giulio Sarego. Il disegno è indirizzato ai Provveditori dei beni inculti al fine di prendere acqua dal fiumicello per mettere a risaia dei campi. E’ un disegno che ci mostra la situazione del fiumicello, delle case di Vò e la presenza della strada per Grancona

La compilazione delle mappe e disegni faceva parte della procedura (supplica) per salvaguardare i diritti della Dominante, sotto cui era la giurisdizione di tutte le acque, ed a tutelare i privilegi concessi o comunque riconosciuti. I Provveditori inviavano in sopralluogo due periti che, oltre a rilevare la mappa, compilavano una relazione scritta sulla fattibilità dell’opera. A tutela dei cittadini veniva diffuso, letto nella pubblica piazza da un banditore, un proclama dei lavori onde permettere a tutti di ricorrere nel caso si sentissero danneggiati. A titolo di esempio ricordiamo la bocciatura del progetto presentato dal Conte Valmarana di Altavilla inteso a raccogliere acqua nell’alto bacino dell’Agno per irrigare le risaie in Altavilla o la supplica dei Revese per raccogliere acqua alla Selva di Montecchio Maggiore.

Carta del1620 ad opera di Hercole Peretti, perito sopra li beni inculti su mandato di Guido Ferramosca

Il paesaggio delineato dalle mappe e dalla cartografia è la descrizione di un mondo organizzato, dove la presenza dell’acqua è costante con l’impegno continuo dell’uomo per piegare l’ambiente e la natura ai suoi bisogni. Occorre ricordare che le mappe sono solo un frammento della realtà e che rappresentano le proprietà nobiliari e terriere, anche se forniscono notizie più generali. Sono quasi sempre ispirate a problemi contingenti. Le mappe, con le indicazioni relative ai sistemi d’irrigazione, all’assetto agronomico della campagna, agli opifici idraulici, ai mulini e a tutte le attività di trasformazione sono espressione di un’epoca storica e di una società dove l’acqua era vissuta come risorsa rara ed oggetto di molta attenzione con tantissime norme per l’uso. Il quadro generale che risulta è legato al fiume, alle sue ricorrenti variazioni con inondazioni e siccità, che a loro volta condizionavano l’attività economica e produttiva della comunità. La protezione, la difesa dell’ambiente e dell’acqua costituivano un unicum, un corpo unico con le attività e la produzione agricola. Non esisteva ancora una tecnologia che permettesse di attingere in profondità ad altre falde l’acqua necessaria, l’unica possibilità era dedicarsi con il massimo impegno a quella che scorreva nel territorio. Lo studio delle mappe attraverso la ricostruzione del territorio e dei suoi sistemi di gestione aiuta a riscoprire un più corretto rapporto uomo-ambiente.
Nel periodo della Dominante furono eseguiti sul Fiumicello lavori rilevanti :

Il primo grande intervento nel 1589, come si può rilevare da una carta, che comportava un nuovo canale di confluenza nel Guà eliminando le numerose anse attraverso la campagna di Meledo.(Vedi Tavola n°1


Il consorzio aveva progettato una rettifica del corso del Guà e lo spostamento a valle della confluenza del Fiume Novo, come viene qui chiamato il Fiumicello, che scorrerà di conseguenza nel vecchio alveo del Guà.Il secondo nel 1598 con la nascita di un Consorzio costituito da GUIDO ARNALDI, ANTONIO ANGUIZZOLA E STROZZI CICOGNA, che si lamentavano delle inondazioni provocate dal Fiumicello che scorreva nella valle di Brendola e si congiungeva nel loco di Meledo con il torrente della Guà. Il problema era costituito dall’otturazione della confluenza del Fiumicello nel Guà. Infatti l’innalzamento dell’alveo del Guà ad opera di ghiaie impediva lo scolo del nostro Fiumicello.

Il nuovo canale da scavare aveva una lunghezza di 480 pertiche ( un Kilometro), una larghezza di 12 più una marezzana di 2 pertiche ed un argine di quattro per un totale di 24 pertiche ( mt. 51,60 ). Questo intervento non poteva risolvere i problemi della palude di Brendola, ma evitava che questa si estendesse ulteriormente togliendo terreni coltivabili. Negli anni successivi infatti furono fatti altri progetti per portare ancora più a valle la confluenza del Fiumicello.(Vedi tavola n°2)


I lavori continuarono anche dopo la fine della Serenissima Repubblica, sotto l’impero asburgico dopo il passaggio di Napoleone. Si costruì un ulteriore tratto di canale fino al ponte di Sarego per risolvere il problema delle ghiaie trasportate dal Guà che impedivano il deflusso del Fiumicello, come si può osservare in questa tabella riassuntiva.(Vedi tanola n°3)
DAL CATASTO NAPOLEONICO AL 1900


Le piene più notevoli che provocarono disastri di cui esiste documentazione storica avvennero negli anni:
Nonostante tutte queste opere e tentativi per imbrigliare le acque, per favorire lo scolo dai terreni e dalle campagne, gli allagamenti, le tracimazioni e le rotte furono tanto numerose nei secoli scorsi che è impossibile compilare l’elenco completo e preciso. In altri termini non esiste una cronistoria delle piene e delle rotte dei corsi d’acqua affluenti nel Gorzone e quindi del nostro fiume.

  • 1513 – 1515 – 1525 – 1539 – 1555 – 1559 – 1567 – 1589
  • 1628 – 1631 – 1636 – 1652 – 1663 – 1674 – 1690 – 1692
  • 1708 – 1711 – 1719 – 1737 – 1742 – 1748 – 1749 – 1754 – 1757 – 1758 1766 – 1772 – 1776 – 1784 – 1785 – 1786 – 1791 – 1793 – 1794 –
  • 1801 – 1802 – 1816 – 1824 – 1825 – 1826 – 1827 – 1829 – 1832 – 1836 1839 – 1848 – 1850 – 1855 – 1856 – 1862 – 1882 – 1885 – 1896 – 1898

Voglio ricordare l’evento del 1862 quando il torrente Guà passò improvvisamente da un regime tranquillo a quello di massima piena. In quella circostanza si ebbe il sormonto degli argini in numerose località ed il ponte di Sarego fu demolito ed alcune sue travi furono trasportate sulle gradinate del Duomo di Cologna. L’argine destro a Sarego infatti fu sfondato per un chilometro circa e la violenta fiumana invase le campagne travolgendo case, strade e manufatti di ogni genere sommergendo 17 ettari di fiorenti coltivazioni.
Le ultime rotte si annoverano nel 1900 e in particolare nel 1905, durante gli anni di guerra e per finire nel 1926, quando si diede inizio alla costruzione del bacino di Montebello Vicentino. A proposito di Grande Guerra voglio ricordare che a Vo’, di fronte a casa Oreste Rossi, lungo l’argine del Fiumicello, furono costruiti dei bagni per i tanti soldati che si trovavano in paese, retrovia del fronte del Pasubio e dell’Altipiano dei Sette Comuni.
Di fronte a questo elenco terribile di disastri varie furono le proposte di intervento a partire dal 1815 con il progetto di Antonio Olivieri, seguito da uno di Antonio Boni, senza concretizzazioni precise. Né miglior fortuna ebbe il progetto di Casarotti del 1823 presentato al Consiglio Aulico delle Costruzioni. Poiché le rovinose piene continuavano ad arrecare danni incalcolabili alle campagne ed agli abitati , i Consorzi e Comuni della zona compresa fra le pendici dei Colli Berici ed Euganei e le sponde sinistre del Chiampo – Alpone e dell’Adige, rivolsero una supplica all’Imperatore d’Austria perché provvedesse alla sistemazione idraulica. Nel 1857 il Sovrano effettuò una visita in tali aree incaricando poco dopo Floriano Pasetti di studiare un progetto idoneo. La soluzione proposta e mai realizzata doveva far confluire il Guà in Adige e lasciare il solo Fiumicello come fonte di alimentazione per il Gorzone.
Per risolvere i problemi del Fiumicello dobbiamo infatti attendere il 1928 quando entrò definitivamente in funzione il bacino di Montebello.

GLI ULTIMI CENTO ANNI

Con legge 5 maggio 1907 venne ricostituito il Magistrato alle Acque per le province venete e di Mantova e fu istituita una commissione per risolvere e sistemare il nostro bacino. Dopo aver speso cifre enormi per argini ed opere di difesa si decise di tentare un esperimento idraulico con la creazione di un bacino per la moderazione delle piene del Guà in località Montebello Vicentino.

 

Il bacino è in grado di contenere 6 milioni di metri cubi d’acqua e dalla sua entrata in funzione non si sono più verificate rotte ed allagamenti a valle del torrente Guà. Solo nel 1978 si è verificato un momento di crisi con l’allagamento del borgo sotto la strada anche per il fatto che l’argine era solo in terra battuta. Attualmente è stato costruito un muro in cemento armato che si affonda di oltre dieci metri dal letto del bacino. Altra situazione di emergenza si è registrata nel 1992 quando l’acqua del bacino è giunta a dieci centimetri dal bordo stradale con la necessità, a momenti, di dover chiudere il bacino. Lo svuotamento delle acque avveniva attraverso il Rio Acquetta che riesciva smaltire 40 metri cubi al secondo, per cui si è deciso di aggiungere un nuovo canale di smaltimento che consente di svuotare il bacino nel giro di qualche ora. Per il funzionamento di tutto l’impianto sono sufficienti due persone. I terreni di servitù dell’invaso sono coltivati ed ai proprietari è stato riconosciuto un indennizzo pari alla metà del valore del terreno.
Il bacino di Montebello fu veramente la soluzione di tante piene e alluvioni. Dopo secoli e secoli di tentativi per imbrigliare le acque e regolamentarle finalmente il manufatto idraulico ha allontanato i pericoli e scongiurato tanti disastri. La storia recente vede nuovi problemi per il nostro fiumicello Brendola collegati allo sviluppo industriale della zona e del comprensorio.
Nel 1950 nasceva in Comune di Montecchio Maggiore un centro industriale, Alte Ceccato, che prendeva il nome dal suo fondatore Pietro Ceccato.
Era un agglomerato abitativo in rapida espansione che in pochi anni era giunto a contare migliaia di persone. Erano tempi in cui si costruivano case senza tante norme e vincoli, senza grandi opere di urbanizzazione. Gli scarichi fognari confluivano in un angolo compreso tra la ferrovia ed il cavalcavia, dove ora sorge Class- Hotel di Castagna Flavio, punto più basso di tutta l’area urbanizzata. Era una raccolta maleodorante di acque stagnanti senza alcuna possibilità di incanalarsi in qualche direzione.
Dopo varie dispute il Comune di Montecchio Maggiore decise di realizzare un collettore fognario e convogliare gli scarichi nel fiumicello Brendola poco prima del ponte di ferro in località Orna. Il fiumicello cambiò completamente in seguito alla presenza di materiale organico e di sostanze inquinanti che fecero rimpiangere l’acqua limpida e le sponde lussureggianti.
Il fiume non offriva più, come per il passato, un contributo di pesci guizzanti, ma solo odori sgradevoli e disturbi a quanti azzardavano entrare in acqua o fermarsi sulle sponde. Le varie amministrazioni di Brendola si attivano per combattere la triste situazione del loro corso d’acqua. E’ verso gli anni ‘80 che una testata come dedica un servizio, di cui riporto una parte, al problema inquinamento del fiumicello.

APRILE 1976 – ANNO XLVI – SETT. IN ABB. POST. GR. II/70

AVVELENATI DA 20 ANNI E NESSUNO SE NE CURA

Di Pier Michele Girola

Da venti anni un paese della Provincia di Vicenza combatte una battaglia disperata contro gli scarichi industriali in un corso d’acqua. Le fabbriche sono nel territorio di un altro Comune, che non interviene con la necessaria durezza, forse perché subisce minori disagi. Un depuratore che non serve.

Nel 1961 circa 380 famiglie della frazione di Vo’ presentarono una petizione al prefetto, che la trasmise alla Provincia, per mettere in evidenza che le acque di scarico della ditta F.I.S. contenevano sostanze altamente inquinanti e venivano sempre scaricate nel Fiumicello. Dal 1973 tutte le acque di scarico civili ed industriali di Montecchio, prima di essere immesse nel Fiumicello, passavano attraverso un depuratore. Non occorreva un tecnico per accorgersi che l’impianto era insufficiente. Bastava andare a vedere cosa usciva dal tubo dopo il trattamento: un liquido giallo verde molto puzzolente

La foto è riprodotta dal servizio e ricorda un personaggio, ormai scomparso, legato alla storia brendolana e del fiume: Antonio Bonamin, proprietario del mulino in frazione Vo’ e presidente del comitato antinquinamento.

Il CONSORZIO FIUMICELLO BRENDOLA, nato nel 1598, nel 1859 si denominava CONSORZIO DI SCOLO FIUMICELLO BRENDOLA e copriva un comprensorio della superficie di 800 ettari circa.
Dopo la rotta del 1882 l’amministrazione consortile, che ai primi del 1900 passò a nuova denominazione come CONSORZIO DI BONIFICA DI 1a CATEGORIA, al fine di ottenere una soluzione definitiva degli allagamenti e della palude incaricò l’ing. Agostino Zanovello di effettuare uno studio e presentare un progetto.
L’ingegnere Zanovello eseguì inizialmente un piano quotato rigoroso dei terreni costituenti il comprensorio da bonificare collegato agli stati di massima piena ed all’alveo del Guà da Sarego al ponte di S. Giovanni a Lonigo.
Il progetto portò alla compilazione del 4° INTERVENTO nel maggio del 1903 con il quale si stabilì la nuova foce di fronte alla casa Soranzo presso Lonigo. La nuova sistemazione proposta assicurava un franco minimo ai terreni più bassi di 0,60 metri e permetteva il riordino di tutti i colatori secondari della pianura confluenti nel Brendola.
Il progetto sottoposto all’esame del Comitato tecnico amministrativo del Magistrato alle Acque di Venezia nell’adunanza del 26 marzo 1916 n. 15 e sancito con decreto reale in data 24 maggio 1917 fu suddiviso in quattro tronchi:
1° dal sottopassante Risarola al ponte di Meledo.
2° dal ponte di Meledo al ponte del Massina.
3° dal ponte Massina alla vecchia foce sul Guà presso Sarego.
4° da Sarego alla nuova foce in Guà presso Lonigo.
In data 19 ottobre 1936 l’amministrazione consortile chiese la concessione di alcune opere suppletive dell’importo di 15.542.74 lire per ricostruire il ponte Cadenello.
Completati i lavori dei quattro punti precedenti esistevano le condizioni per la sistemazione definitiva della pianura di Brendola o Palù, i cui lavori furono divisi in tre lotti:
1° lotto Scolo Palù : progetto ing. Antonio Matteazzi, importo lire 9.665.977, impresa Tessari da Lonigo, iniziato in marzo 1948, collaudato il 5 agosto 1950.
2° lotto Scolo Palù : progetto ing. Antonio Matteazzi, importo lire 3.120.100, impresa Cooperativa “Tutto per Tutti” da Veronella, iniziati il 5 giugno 1949 e terminati il 18 novembre 1949.
3° lotto Scolo Palù : progetto ing. Antonio Matteazzi, importo lire 2.374.925, impresa Cooperativa tra Muratori e Manovali da Bolzano Vicentino, iniziato il 14 marzo 1953 e terminato il 10 dicembre 1953.

Incontro tra fiumicello Brendola e Guà a Lonigo.

Verso la fine degli anni ottanta nasce il CONSORZIO DI BONIFICA DELLA RIVIERA BERICA, con funzioni di manutenzione ordinaria e straordinaria del fiume. E’ proprio ad opera di questo consorzio che il letto del fiume passante a contatto del molino Bonamin viene spostato, lasciando la ruota priva della forza motrice dell’acqua e decretando la fine di un’attività storica come quella delle macine.
Il consorzio in questi anni ha operato per risanare tutta la zona Revese dalle inondazioni di acque meteoriche abbassando il letto del fiume. Un’altra opera importante è stata la salvaguardia di alcune risorgive; in particolare le “boie” Bertozzo sono state dotate di un impianto in grado di mantenere, in caso di bisogno, un flusso di acqua costante al fiumicello.

LUNGO IL CORSO DEL FIUME A PIEDI

Iniziamo la descrizione del corso del Fiumicello Brendola partendo da via Einaudi, posta a fianco dell’autostrada A 4 Serenissima. La sorgente “le dose” non esiste più, sostituita dalle acque di scarico del depuratore del Comune di Montecchio Maggiore. Il canale raccoglitore passa sotto la sede autostradale e spunta alla vista in corrispondenza del “ponte in ferro”, posto sulla statale 500 Lonigo – Vicenza. Questo ponte in ferro è ignorato da tanti automobilisti che, passando veloci, non immaginano di attraversare l’inizio di un fiume. Da questa posizione è possibile vedere il ponte in via delle Fontanine, strada di collegamento tra le due aree industriali poste a lato di via De Gasperi. La distanza tra i due ponti è di circa 200 metri ed le rive sono inagibili perché inglobate nelle proprietà dei capannoni che giungono quasi ai bordi del fiume. Di conseguenza il tratto iniziale del fiume, che assomiglia ad un piccolo canale, scorre oggi in posizione non raggiungibile e conviene tralasciare di percorrere gli argini. La nostra passeggiata può iniziare dopo il ponte di via Molinetto, costruito intorno agli anni 1987, che conduce in corte Campagnaro. Qui esisteva un molino della famiglia Ferramosca come documentato da alcune mappe.
Gli ultimi quarant’anni, quelli che vanno grosso modo dall’esplosione del “miracolo economico” ad oggi, hanno segnato e cancellato ogni traccia in questa parte del territorio un tempo paludoso e dominato dalle acque. L’area industriale ha sostituito le antiche proprietà terriere i cui conduttori avevano dedicato tanto impegno nell’opera di sistemazione idraulica e di bonifica. Il molino Campagnaro, ora scomparso, funzionava con ruote ad acqua e faceva parte di una realtà antichissima che possiamo datare iniziata intorno all’anno mille. Le ruote a pala trovavano infatti il loro ambiente ideale nei fiumi di risorgiva e nei canali di pianura , dal corso placido e sufficiente. Il mulino di campagna era “bannale”, cioè soggetto al monopolio signorile della molinatura.
Anche in tempi più vicini il molino ed il suo titolare erano un punto di riferimento importante.
Il mugnaio era una figura consolidata nel tempo, nel senso che esercitava un mestiere specializzato a tempo pieno, gestiva una complessa attrezzatura, era depositario di un insieme di saperi provenienti da una lunga tradizione e che trasmetteva per via familiare alla propria discendenza. Il mugnaio oltre a conoscere perfettamente le proprietà dei cereali che macinava e dei prodotti della macinazione, le farine, le crusche, le semole, era insieme meccanico, falegname, idraulico. Interveniva sul corso d’acqua e sulle chiuse, sulla ruota e sugli ingranaggi, sulla tramoggia e sulle macine, controllava e metteva a punto in ogni momento della giornata tutta la tecnologia in suo possesso. Il peggior nemico del mugnaio erano “le pantegane”, i grossi topi di fiume che infestavano il mulino in particolare durante il periodo invernale e che neppure la presenza abituale di numerosi gatti riusciva a mettere in fuga.
Qui entra a proposito il racconto di Mario Brunello sulla vita del “Mulin Del Sole” del 1700 che funzionava a mole fino agli anni ’50 quando fu trasformato in mulino a cilindri. Era gestito da Agostino Meneghini, personaggio particolare. Aveva un fratello, Giuseppe che, a Meledo svolgeva lo stesso lavoro. In questo mulino hanno operato tanti componenti della famiglia Brunello a partire da Angelina, che aveva iniziato a lavorare con i genitori di Agostino, Gilmo e Plinio, successivamente divenuto ottimo musicista alla scala di Milano. Tullio Storato organizzava spesso gite in pulman fino a Milano per ascoltare il suonatore brendolano. Per il mulino passarono anche altri Brunello come Tonin, Ottorino ed infine Mario, che aveva sognato e progettato di rilevare l’attività senza riuscirvi per il difficile carattere di Agostino, capace di festeggiare e brindare tutta la notte e dormire tutto il giorno successivo. In dotazione del molino c’era un vecchio camioncino che partendo a spinta e sprovvisto di porte, aveva sostituito il cavallo nei regolari giri di raccolta e distribuzione dei prodotti tra Brendola, Montebello e Meledo. Agostino, nato nel 1900, morì nel 1983 in un incidente in località Orna lasciando al figlio Gino il mulino che praticamente non lavorava più dal 1970. Il figlio, che aveva sposato una Maule ed era stato qualche anno in Svizzera, non amava molto questo lavoro e fu trovato morto ai piedi della scala all’interno del molino.
Quanto ai rapporti con la clientela, talvolta erano gli interessati a portare i sacchi al molino e tornare più tardi a riprenderli, ma frequentemente il mugnaio possedeva un carretto ed un mulo con i quali percorreva la campagna per la raccolta e la consegna. Ricordo ” Santin Munaro” quando passava a casa mia settimanalmente con il suo carico di farina e grano o in tempi più recenti “Toni Mestra” con il suo motocarro percorrere le strade brendolane. La posizione sociale del mugnaio era di notevole considerazione, anche se non mancavano lamentele e discussioni.
 Bisogna comunque sottolineare che qualunque molino era destinato ad assumere la funzione di punto di incontro tra i contadini, per scambiarsi notizie, per trattare affari, e l’evoluzione di questa consuetudine socializzante ha spesso favorito l’espansione di nuclei insediativi elementari. Il rudimentale uso delle roste ha sempre permesso di creare dei modesti salti d’acqua sufficienti per far funzionare i nostri mulini.

A conferma di un noto passato molinatorio, il notaio brendolano Bertoni in data 16 gennaio 1575 ha redatto, in contrà del Vo’, un documento alla presenza di mistro Giulio Carpentiere di Brendola e di Giuseppe di Asigliano, pure carpentiere, che stimano un molino 57 ducati e mezzo e la relativa attrezzatura 35 ducati. Nel 1773 risultano registrati nel nostro territorio quattro mulini operanti ed attivi.

ROSTA : L’insieme della Bova e degli Apostoli che determinano uno sbarramento.
Apostoli: Sono gli stipiti o soglie della paratoia
Bova : un quadrato o rettangolo di tavole in legno di piccole dimensioni con un manico nella parte superiore (paratoia); allorché ha dimensioni più grandi si chiama Bastarda

 Ripensando ai tempi passati, ancora prima di iniziare il cammino, mi sono perduto a raccontare dei molini e dell’utilizzo dell’acqua.
Con un po’ di coraggio possiamo spostarci lungo l’argine seguendo alcune anse del fiume avendo davanti agli occhi la collina con la Chiesa Incompiuta, la Chiesa di S. Michele ed i resti del Castello dipinti con i colori delle varie stagioni come la campagna circostante. Il passo lento e tranquillo ci porta ad un fabbricato particolare posto al bordo del fiume : LA CHIESA DI MADONNA DEI PRATI.
Complesso monumentale costituito da chiesa, campanile, chiostro e canonica merita una pausa per visitare l’interno e conoscere la sua storia. Suggestiva è l’ipotesi che si trattasse di un piccolo tempietto dedicato a qualche divinità delle acque o della caccia trasformato ed ampliato successivamente. Il culto dell’acqua veniva proposto con diverse immagini di devozione alla Vergine o ai Santi, come modello di purificazione e trasparenza. Nei culti attuali dell’acqua si incrociano lontani echi magico sacrali risalenti al paganesimo con più freschi ricordi del miracolo di Lourdes. L’immaginario devozionale popolare riafferma il bisogno di luoghi di culto vicini, semplici in cui il rapporto tra divinità, ambiente e persone sia ben stretto. Un tempo le abitazioni dei contadini e le stalle abbondavano di acquesantiere pensili, piene di acqua benedetta utile per tante calamità e disgrazie.

I primi documenti che parlano di questa costruzione risalgono al 1200 circa e la documentazione storica si può trovare negli archivi dei monaci Lateranensi che avevano ereditato l’archivio benedettino. Volevo ricordare la presenza e la possibilità di ammirare anche due dipinti attribuiti con certezza al Maffei.
La nostra passeggiata continua lungo l’argine per giungere ad un nuovo ponte, in procinto di essere allargato e rifatto, che collega il centro del paese con la località Pedocchio. E’ il caso di attraversarlo e pochi passi più avanti è disponibile una stradina che, permettendo di cambiare sponda, porta al macello ed ai pozzi dell’acquedotto comunale. Imboccata la nuova via possiamo subito notare sulla nostra sinistra un profondo canale che porta le acque dello scaranto della zona Valle. Lungo la sponda di questo manufatto sono ancora visibili dei sassi in bella fila a testimoniare un’antica presenza romana. Dopo un breve serpeggiare lungo le anse ci appare innanzi un nuovo fabbricato giallo che non riesce a coprire il vecchio mulino Bonamin con una grande scritta posta sulla facciata a nord : a partire dal X secolo “Molino del VO'”.

Qui inizia il vero fiume con l’aggiunta del Braggio che nasce in località Casavalle. E’ un vero affluente non un collettore od un “fosso”

Ora stanno realizzando la nuova circonvallazione di Vo’ che, superando il fiumicello davanti al molino Bonamin, finisce in piazza Leonardo Da Vinci, ma il nuovo ponte non è ancora disponibile per cui siamo costretti a procedere per 100 metri lungo la vecchia strada provinciale fino a villa Rossi. Davanti a questo edificio storico esistevano un abbeveratoio ed un ” lavandaro”.

I Collettori, ampi fossati spesso incolti ed asciutti, dal fondo non ciottoloso, scavati dall’uomo soprattutto al tempo della Repubblica Veneta per smaltire le acque in occasione di piogge eccezionali o di brentane si distinguono dai fossi, un tempo ritenuti indispensabili, oggi sostituiti da tubi interrati e tombinati, che drenavano l’acqua dei campi, delle strade e delle contrade per evitare dannosi ristagni.

Di pertinenza della villa del Sig.Oreste Rossi è il piccolo ponte che permette il collegamento con la campagna e la costruenda nuova strada, non sempre accessibile perché chiuso da un cancello. Approfittiamo del passaggio di un trattore per passare sull’altra sponda e descrivere i vari edifici che confinano con il fiume.
Per una adeguata documentazione invito tutti a leggere il libro “Nel mio andar per Brendola” di Giuseppe Storato, ricco di umanità e di tanti ricordi. 

 

Mi limito ad elencare gli attuali confinanti con il fiume a partire da Ghiotto, da Graser Domenico (ex panettiere) e Severino (ex motorista ed abile lavoratore del rame), per continuare con i Lombarda e Rigolon, i Muffarotto, i Rigon , i Pellizzari, i Pretto, i Calori ed i Ceretta ed infine Piazza Beltrame con i negozi di Foletto, di Jessica Bisognin e con altri piccoli appartamenti. Dalla massicciata attuale, futura strada di circonvallazione, fiancheggiante il fiume si intravedono la chiesa parrocchiale, altre costruzioni ai piedi del monte e sulla sponda opposta le nuove costruzioni abitative di via Mano e via Marinali. Sull’angolo destro di Piazza Beltrame la casa di Rosina con il dispensario farmaceutico , ex macelleria Righetti Roberto, posta quasi a guardia del ponte di via Palladio, ci invita, per la presenza perenne davanti alla porta d’ingresso di alcune sedie, ad una sosta per uno sguardo d’insieme.
Mi siedo a guardare e, quasi come zoomando, osservo a partire da sinistra i fabbricati della Piazza L. Da Vinci.
Il passante, proveniente da via A.Palladio, si trova davanti un edificio in fase di restauro quasi completata, storicamente datato, vecchia sede dell’ambulatorio medico. Prima dell’inizio lavori tale edificio, costruito nel lontano 1900, presentava una facciata a sud caratterizzata da una coppia di finestre ai lati della porta centrale di accesso al piano terra. Il primo piano era sempre contrassegnato da una coppia di finestre ai lati della porta centrale a balconcino. Infine cinque piccole finestre rettangolari scorrevano sotto la cornice dello spiovente del tetto, orientato a falda in direzione nord ovest – sud est. Sulla parete di sinistra della casa una porta era accompagnata da una finestra per lato. Sulla parete di destra esisteva una scala per accedere al primo piano. A sinistra della casa, come ora, era tracciata una stradina per accedere ad un cortile posteriore ed ad altri piccoli fabbricati. Sul lato destro una cancellata in legno finiva a ridosso del Bar Vignaga e nascondeva un garage.
La porta al piano terra si apriva in una grande stanza, che serviva come sala d’attesa dell’ambulatorio medico posto a sinistra dell’entrata, con di fronte la porta del bagno, mentre a destra era disponibile un grande salone. A completare lo spazio a disposizione esisteva sul retro dell’ambulatorio un ripostiglio con annesso piccolo servizio igienico. La pianta dello stabile era quindi rettangolare con misure grossolanamente di 14 m x 10 m.
Lo stabile fatiscente con la facciata rivestita di colore giallo graffiato era collocato al numero civico 8 di Piazza L. Da Vinci ed era di proprietà comunale. Il primo piano veniva utilizzato come abitazione del segretario comunale. Nella grande sala al piano terra si riunivano le varie associazioni e gruppi sociali. Durante la sagra dell’Assunta in agosto la grande stanza era la sede della pesca di beneficenza.
In questi locali è sempre stato attivo un ambulatorio comunale, come servizio alla popolazione di Vo’ di Brendola. La gente di oggi ricorda ancora la presenza dei vecchi medici condotti dr. Fenelli, dr. Leopardi, successivamente del dr. Garbin ed infine del dr. Stefani Giovanni.
In seguito alla legge di riforma sanitaria n°833/78 la figura del medico condotto e dell’ufficiale sanitario veniva abolita e le sue funzioni accentrate presso il distretto. Di conseguenza l’ambulatorio cessava la sua funzione e doveva essere chiuso.
In quel tempo era sindaco del Comune di Brendola il Sig Orfeo.Rigon e per sua iniziativa, onde assicurare la continuazione di un servizio alla frazione Vo’, convocò presso l’amministrazione i medici Stefani dr. Giovanni, Stefani dr. Giovanna, Visonà dr Giuseppe, Castegnaro dr. Giorgio, operanti nel territorio comunale . La proposta del sindaco si articolava, per sommi capi nella disponibilità dell’amministrazione comunale a garantire l’utilizzo dei locali ai medici, a sostenere tutte le spese di pulizia, riscaldamento e gestione dell’ambulatorio, a condizione che tutti i medici svolgessero un congruo orario di apertura ed una presenza per almeno due volte la settimana. Questo succedeva nel lontano 1986 e per tanto tempo il servizio ha funzionato discretamente.
A questo punto credo giusto ricordare la figura di Maria Tamion , che con disponibilità ed altruismo, tantissime volte, ha supplito di sua iniziativa a tante carenze nella gestione dello stabile A titolo informativo ricordo che l’amministrazione ha ceduto lo stabile al Sig. Bisognin Mario, che ha utilizzato l’immobile a suo piacimento, come è ora visibile.
Nella piazza rimane ancora a testimonianza di un passato la presenza della pesa pubblica, ormai abbandonata e in disuso da tempo. Forse qualcuno dovrebbe provvedere ad una decente sistemazione dell’area. Ritorniamo a vecchi concetti quali la pulizia e l’ordine come segno di vivibilità di un territorio, come indice di amore per la propria terra e per i luoghi di vita. Questo angolo di Vo’ merita particolare attenzione non solo come incrocio di strade, ma anche come punto di incontro tra persone del posto.
Ma riprendiamo il cammino attraversando il ponte di via Palladio. Dal momento che non è più possibile continuare sull’argine sinistro, per la presenza della strada provinciale e di fabbricati confinanti con il fiume, è opportuno andare in direzione della strada della Pila rimanendo per un breve tratto lontani dall’acqua che scorre tranquilla attraversata da altri due ponti privati : uno di Bertoldo e l’altro di Bedin Mario.
Lungo la strada bianca della Pila, dopo aver lasciato alle spalle le case di Bedin Italico e Castegnaro Antonio, il fiume che serpeggia tra i campi sembra aspettare l’arrivo di altre acque amiche. Si apre, infatti, imponente alla vista la pianura di Brendola e tutta la meravigliosa conca del Palù con la contrada di S. Valentino a chiudere lo sguardo. Là in fondo esisteva contrada Molini a testimonianza della presenza un tempo di un Molino ed anche oggi l’acqua scende di lato a casa Lovato. Guerrino Lovato, i fratelli e la madre Sabina, da sempre attenti all’ambiente e alla natura, sono orgogliosi del meraviglioso “lavandaro” posto davanti casa. La conca del ” Cao de Là” è percorsa dalla degora dei Frati, manufatto costruito dai Benedettini, e da una serie di canali di scolo che confluiscono dopo aver attraversato la strada provinciale ai Ponticelli nel fiume. Tutto questo intreccio di canali è visibile e comprensibile piazzandosi sopra il ponte Cadenello in fondo alla strada della Pila. Non sfugge alla vista S. Vito con la sua chiesetta e le case appoggiate ai piedi del bosco. Un tempo la strada, che da S. Valentino va in direzione S. Vito, era chiamata ” dei Gazzi”, termine che richiama il popolo Longobardo. Mi auguro che qualcuno trovi il tempo e la documentazione necessaria per confermare la presenza longobarda in questo angolo di territorio e valorizzare l’opera dei frati.

Sottopasso della Risarola

Da questo momento dobbiamo mantenere la sponda destra del fiume e superare gli affluenti Risarola, Anguzzolo e Ranzola zigzagando in mezzo alla meravigliosa campagna brendolana fino a Meledo.
E’ inevitabile accennare ad un problema di una certa importanza e di questi anni: mi riferisco alla presenza di un consistente numero di “nutrie” lungo il corso d’acqua.

Nutria,

Il nutria, lungo 1 m circa di cui 40 cm spettano alla coda, ha tronco e capo simili a quelli del castoro; zampe robuste con cinque dita munite di unghie e collegate tra loro, negli arti posteriori, da una membrana; coda coperta di squamette; mantello bruno formato da lanetta fitta e morbida mescolata a peli setolosi, che fornisce una buona pelliccia. Ottimi nuotatori, vivono nelle vicinanze dei corsi d’acqua, paludi e laghi; sulle rive scavano profonde tane dove si rifugiano all’avvicinarsi di un pericolo, dopo aver lanciato grida lamentose per avvisare tutto il branco. Il loro carattere tranquillo ne facilita l’allevamento e i primi tentativi in questo senso fatti nell’America del Sud ebbero un successo così grande che ben presto gli allevamenti si diffusero e si moltiplicarono anche in Europa. La pelliccia di nutria, solida, tinta e lucidata, viene utilizzata per la confezione di cappotti o di guarnizioni; è detta, comunemente, castorino.

Gli agricoltori della zona si lamentano dei danni provocati da questi animali, piuttosto numerosi, troppo laboriosi nello scavare tane e ottimi mangiatori. La loro comparsa lungo il fiume è un fenomeno recente e nessuno mai ha indagato a fondo sulla loro provenienza.
Altro problema sul tappeto è la probabilità che le acque reflue del futuro C.I.S. di Montebello Vicentino, localizzato oltre la ferrovia Milano – Venezia, vengano scaricate lungo la Renzola nel Fiumicello Brendola. Le conseguenze di tale scelta non sono facilmente prevedibili e quantificabili, ma certamente si impone un’attenta riflessione ed analisi per non alterare un equilibrio idrografico che ha impiegato circa 400 anni per realizzarsi. Tentando di leggere in positivo i cambiamenti si potrebbe anche ipotizzare che le acque di scarico del C.I.S. vengano utilizzate per creare un bacino od un laghetto artificiale.

I PONTI SUL FIUME

I nostri giorni con la loro gigantesca potenza tecnologica hanno reso insignificante e semplice la progettazione e costruzione di un ponte. La quantità di ponti realizzati nell’ambito del naturale sviluppo della viabilità e dei trasporti ha banalizzato il ponte realizzato con una serie di travate in cemento armato autoportanti e precompresse con minimo impiego di materiali e forme.
Nove ponti attraversano il fiumicello Brendola lungo il suo percorso all’interno del territorio brendolano. Sono tutte strutture modeste e senza forme o stili costruttivi degni di nota. Non sono ponti firmati da qualche grande maestro, ma ogni ponte per noi significa una sfida, un’espressione completa del passaggio, del superamento di una barriera, di un limite. Come le ruote di un carro sono unite da un ponte di legno tante nostre esperienze sono unite da ponti di solidarietà di comprensione, di disponibilità ed attenzione. Un ponte è l’orgoglio del progettista, ma ancor di più della comunità che l’ha voluto e reso possibile.
L’idea del ponte esprime il desiderio di una comunità di comunicare, di mettere insieme parti staccate di un territorio per superare uno spazio vuoto interposto, pericoloso perché può espandersi e travolgere. Il ponte ha una valenza pratica per superare il fiume e le sue acque, a volte tranquille a volte irruenti con straripamenti ed inondazioni, ma anche il significato di sfida, conquista e capacità di spingersi oltre. Il ponte sulla statale 500, quello per Madonna dei Prati, quello di via Palladio hanno precedenti in epoca romana : la costruzione e la manutenzione dei ponti gravavano direttamente sullo stato che ne ripartiva i costi con imposizioni comuni a testimonianza di un sistema che permetteva di congiungere l’impero. Dopo il vuoto dei regni barbarici in epoca medievale ad opera degli ordini religiosi si riprese la cultura dei ponti e si accese il pellegrinaggio pacifico attraverso i paesi. Si potrebbe concludere che i nostri ponti hanno vissuto questi cicli storici per giungere ai nostri giorni ed essere pensati esclusivamente come realizzazioni di un progetto più modesto e semplice che consiste nel rendere tutto piano, orizzontale per favorire e garantire il transito in ogni angolo di terra. Il ponte ha perso il suo valore simbolico, la sua funzione di arredo urbano, la rappresentazione di unione tra aree di un comune territorio, strumento di passaggio per viandanti e pellegrini. Oggi la tecnologia fornisce altri ponti di dimensioni globali come internet o collegamenti satellitari, ma anche nel più umile dei ponti si può vedere qualcosa di eccezionale, il segno di una sfida, l’espressione certa di un passaggio, la testimonianza di una civiltà. I nostri ponti sul fiumicello restano a testimonianza di una storia locale che ha percorso le tappe del riscatto dalle acque, dalle inondazioni e dall’isolamento.
Sono convinto che chiunque comincerà a camminare sulle sponde del fiume, da quel momento inizierà un rapporto completamente diverso con l’acqua e la natura. Si sentirà coinvolto con l’ambiente ed inizierà a valorizzare un patrimonio dimenticato e sconosciuto.