II BOSCO DI S. VITO

Dal crinale del colle Castegnile il declivio digrada dapprima ripido, infine con dolcezza, sino a perdersi, confondersi con i sottostanti fertili terreni del Palù; davanti si staglia l’antico caratteristico borgo di Brendola aggrappato attorno alla neogotica chiesa di San Michele e dominato dalla superba Rocca dei Vescovi; più in basso la ingombrante mole dell’incompiuto tempio al Cerro svillaneggia l’ameno colle dei Martiri e mostra i segni del tempo nell’enorme occhiaia vuota del catino absidale.
In lontananza si mostrano le alte cime delle Prealpi Veronesi e Vicentine (il Carega il Pasubio il Baffelan); spruzzate dal bianco candore della prima neve segno premonitore dell’incipiente arrivo dell’inverno.
Ci troviamo in quella fascia di territorio brendolano, ora ammantata dagli accesi colori autunnali volgarmente chiamata eI boscon de San Vio il bosco di San Vito, cioè quella zona che inizia dai profilo del Castegnile e tenendo a lato lo scaranto della sorgente Valentini, termina ai piedi del gruppo di case, costruite a seguire il pendio del monte che formano la Corte Grande Benedettina ed allo sperone sul quale si appoggia il romantico complesso della Corte Piccola Benedettina. Il comprensorio riveste peculiare interesse, considerato che gli aspetti naturali, antropici e storici seppur comuni ad altri ambienti berici danno luogo ad un percorso pluritematico, raro contenitore di risorse informative che si possono sintetizzare in situazione geomorfologica e vegetativa,ambiente paludoso , sorgive d’altura, i suoi primi abitanti e l’opera dei Benedettini.
Il versante settentrionale dei Castegnile (nome che ricorre sovente nei documenti antichi sin dal 1249 anche coi toponimo di Castelille, Castegile e Castenile, e che sta a significare in origine un forte insediamento in loco di piante di castagno) denuncia una formazione sedimentaria calcarea, fortemente soggetta ad erosione carsica precipitante nella forra che inizia dalla sorgente Valentini; qui il carsismo appare in tutta la sua evidenza anche agli occhi del profano: dalla sorgente sgorga acqua in abbondanza che svanisce, fatta qualche decina di metri, nei mille meandri dei sottosuolo.
Il fenomeno del carsismo consiste nella dissoluzione operata dall’acqua piovana sulla roccia calcarea contenente fratture tali da lasciarla percolare al proprio interno creando, con l’andar dei tempo, condotti sempre più ampi sino a divenire vere e proprie grotte e doline alcune con inghiottitoio; l’acqua infine incontrando strati impermeabili orizzontali o lievemente inclinati a valle, esce a giorno lungo i pendii.
Un esempio di quanto sopra compare con evidenza nella più elevata Fontana dell’Orco dove la concomitante presenza di una modesta breccia basaltica e di una fascia argillosa alta qualche centimetro blocca l’infiltrazione dell’acqua, facendola sgorgare all’aperto attraverso una piccola galleria.
La morfologia del terreno risulta in prevalenza formata dalla roccia oligocenica, gravemente alterata in superficie dalla stratificazione indefinita, appartenente alla formazione delle calcareniti di Castelgomberto, coperta parzialmente da un substrato organico sul quale s’innesta la struttura boschiva.
Lo stato vegetativo attuale, comune in quasi tutti i Berici, è la conseguenza dell’alternarsi delle vicissitudini climatiche succedutesi attraverso i secoli ed è composta da una variegata copertura arborea termofila, a caratteristica cedua, e da diverse varietà arbustive ed erbacee.
L’iniziale predominanza del castagno è stata soppiantata dall’inserimento spontaneo di altre specie quali l’ostrieto e, soprattutto, l’infestante robinia.
Alla radice di tutti i mestieri antichi si trova l’uomo, che lavora la terra per ricavarne il pane ed il vino, e, non a caso, la figura del seminatore e del vignaiolo riempiono di senso le metafore delle Sacre Scritture.
Si lavora per produrre pane, s’inventano mestieri per avere il pane, frutto della fatica e della speranza. Chi conosce e rispetta il lavoro sa che esso è composto da una grande somma di fatiche ; sa del lievitar del pane e delle sue mutazioni: da seme che muore dentro la terra per diventare spiga dorata che svetta nel campo;, sa quante braccia di contadino e di donna lo hanno impastato col sudore e l’acqua,, con quel tanto di sale che è sapienza di secoli e sapore per la bocca,, il tutto per la mediazione del fuoco.
La cultura popolare non ha un volto, ma mille, mille mani che nella ininterrotta catena delle generazioni si sono trasmesse tante testimonianze di sapiente esperienza contadina. Mani guidate dalla bisogna dei giorni dall’ancestrale memoria dei predecessori, mani che nella quotidinità hanno fatto affiorare intuizioni e deduzioni, mani sudate piene di calli e di fervore, nel mezzo di uno scenario fatto di terra, alberi ed erbe. Uomini segnati da queste mani rosse, grosse, da schiene ricurve da gambe gonfie per la stanchezza, da menti continuamente impegnate a misurare, prevedere, interpretare segni dello spazio e del tempo; quelle mani avevano guidato i buoi nell’aratura e costruito il giogo ricavandolo da un unico pezzo di legno di acero, avevano prodotto il rastrello nelle notti passate nel tepore delle stalle a fare filò accapparandosi i diversi legni necessari: un ramo liscio di salice per fare il manico, legno leggero che non fa sudare ed allevia la fatica,, per il pettine andava bene l’olmo, resistente all’usura,, per i denti dei buoni pezzi di acacia.
La collina ed i suoi coltivi rubati al bosco, ripuliti dai rovi e dai sassi, richiamo dispendioso di energie, hanno sempre dato un frutto pieno di avarizia e questo è stato la principale spinta a trascurarle, abbandonarle per travasare quella originale manualità nella miriade di micro aziende artigiane sorte nell’immediato dopoguerra.
Così il bosco, per lungo tempo curato, amato, sfruttato con grande rispetto nelle risorse naturali presenti, rimase impoverito dalla mancanza dell’uomo con il quale viveva in stretta simbiosi e ciò causò un consolidamento di un esteso ambiente vegetativo spontaneo, quello che oggi abbiamo dinanzi agli occhi.

IL bosco quindi era, in altri tempi, sostentamento fonte di vita per la famiglia e per la comunità cui essa era vincolata:
– tronchi di castagno e robinia approvvigionavano il mercato dei pali per il
vigneto, ora sostituiti dai più attuali di cemento,
– il rovere, il carpino, l’orniello, il nocciolo fornivano legna da ardere sia per
la famiglia che per essere venduta; non esistevano allora né il gasolio ed il
gas metano per riscaldamento, né termosifoni e caldaie, ma solo focolari e
stufe.

La pianta veniva tagliata alla base e successivamente si mondava – ramava – della ramaglia che veniva raccolta più tardi, dopo esser stata legata in fascine – fassine – trainati a casa con i buoi grossi tronchi venivano ridotti in piccoli pezzi – stele – per essere poi accatastati in bell’ordine sotto le tettoie – legnare -.
Chi era povero e non possedeva terra andava nel bosco a spigolare furtivamente quei pochi rametti rimasti a terra sotto l’occhio compiacente del padrone o dei guardaboschi – camparo – così anche la loro misera casa poteva avere un po’ di colore durante i mesi più freddi.
– Con le potature delle siepi di confine e delle piante talvolta si ricavava la carbonella che serviva ad alimentare le stufe dei cittadini: si formava la catasta di legna -carbonara – e la si ricopriva di terra avendo l’accortezza di lasciare aperti dei piccoli sfiatatoi alla base, che venivano subito chiusi dopo l’accensione. La combustione interna procedendo per difetto d’aria portava la temperatura a 500/6000 C. dando una resa di carbone rispetto al legno di circa il 20%.
– Negli spiazzi aperti e nelle doline poco profonde veniva seminato granoturco, qualche volta patate, mentre nelle adiacenze del bosco regnava il prato stabile interrotto da filari – piantà – di viti aggrappate a gruppi di quattro alle piante di acero.
Nel bosco il contadino trovava la sua “farmacia” con erbe, radici, frutti selvatici, faceva infusi, decotti e cataplasmi per prevenire e curare varie malattie:
– i frutti, le foglie, le radici e la corteccia essiccate del ginepro avevano proprietà diuretiche, antisettiche, balsamiche; le bacche normalmente si mettevano nella grappa fatta in casa – graspa de casa – con un rudimentale alambicco, per ottenere un aroma robusto oppure negli arrosti per insaporirne la carne,
– i frutti della rosa canina, asciugati al sole, avevano proprietà astringenti: venivano somministrati ai bambini per fermare le frequenti dissenterie causate dalla malnutrizione e dalle pessime condizioni igieniche, per questo volgarmente erano e sono ancora chiamati stropaculi,
– anche il sugo delle more di rovo era usato contro la dissenteria, ma anche per far squisite marmellate
– le infiorescenze del sambuco nero avevano proprietà diuretiche, sudorifere, lassative, antireumatiche ed antinevralgiche
– un decotto di foglie e radici dell’edera comune, unito al latte, faceva sciogliere ed eliminare i calcoli renali,
– un decotto di equiseto – equisetum arvense – coa de volpe- era utile contro le piaghe ulcerose,
– le foglie del frassino avevano efficacia contro i reumatismi,
– la corteccia – scorsa – dell olmo – opio – aveva virtù benefiche contro i reumatismi,
– il caffé fatto con le ghiande della quercia serviva come tonico per lo stomaco,
– i fiori, le foglioline, i frutti e la corteccia del biancospino avevano effetti sedativi, ipotensivi, cardiotonici, oltre che astringenti per le pelli grasse,
– il decotto della radice (rizoma) del pungitopo aveva proprietà diuretiche,
antinfiammatori ed astringenti, l’erba cipollina veniva usata in cucina per insaporire insalate miste per condire
carne e pesci alla griglia; il succo calmava la tosse e se cotto, allungato col latte e con
un bicchierino di acqua di rose e mescolato con un cucchiaio di miele, serviva da
maschera di bellezza contro le rughe e le macchie sulla pelle
– il rizoma e le foglie della primula davano un’ottima infusione contro la tosse, l’artrite i reumatismi, l’isterismo e le palpitazioni di cuore,
– il decotto dì foglie di pruno rappresentava un buon depurativo, inoltre il decotto
ottenuto con i frutti era astringente per l’epidermide troppo untuosa,
– dai semi del corniolo si ricavava un olio che serviva per la preparazione del
sapone,
– si usava mettere le felci nei pagliericci (materassi riempiti di paglia o foglie –
scartossi – di granoturco – sorgo) per allontanare le pulci – pioci – dal letto.

II bosco era anche luogo di leggende e paure: l’abitazione prediletta di streghe, folletti, fate ed orchi era lì.
Quante volte i giovanotti passando da filò in filò alla ricerca di avventure amorose, nel ritorno verso casa attraversando il bosco incontravano i folletti – salbanei – (minuscoli uomini vestiti di rosso, accompagnati qualche volta da una scrofa con i suoi piccoli) che saltando di ceppaia in ceppaia facevano venire la tremarella. Erano esser capaci di scherzi malvagi, di disturbare il sonno degli uomini, di intrecciare la coda dei buoi e delle mucche con robusti e minuscoli nodi, di far perdere l’orientamento.
Solo da poco tempo si è compreso che quelle rosse fiammate che si vedevano di notte nel bosco altro non erano che le sporate (caduta a terra delle spore per l’inseminazione) del malefico fungo dell’olivo – clitocybe olearia.
La Fontana dell’Orco porta alla mente un’altra creatura fantastica, appunto il gigantesco orco, il quale tenendo le gambe divaricate, appoggiate per terra ai lati della strada, invitava coloro che lo incontravano a passare sotto: era il suo divertimento preferito e quando ciò avveniva la sua risata risuonava lugubre nell’oscurità.
Abitava sicuramente nel soprastante covolo Battocchio, sopra le Cenghie – Senge -a volte poteva , diventare invisibile o si presentava sotto forma enorme, che in qualche caso scompariva in un baleno dentro un enorme fuoco .
Indubbiamente la credenza popolare immaginava che la Fontana Valentini avessero la propria abitazione le anguane, le antiche ninfe dei boschi e delle acque. Erano queste esseri ambigui che potevano sconfinare nel mondo degli umani; vestite di bianco ed accompagnandosi a melodiosi canti comparivano all’inizio della notte presso la sorgente, per stendere il bucato. Potevano anche riunirsi per preparare una cena e consumare insieme il banchetto, ma ai primi chiarori dell’alba tutto spariva, anguane, panni e cibo.
Talvolta assumevano caratteri malvagi e spaventavano le donne che sul far del mattino si recavano alla sorgente a lavare; inseguivano gli uomini per ammagliarli, poi ridurli in schiavitù e prediligevano particolarmente i “novizi”, cioè i giovani in procinto di sposarsi, che per questo motivo dovevano tener sempre in tasca il Rosario: tanta era la paura che dall’imbrunire alcuna persona osava più avvicinarsi alla fontana.
La strega – stria – normalmente abitava in una fatiscente capanna ai margini dei bosco ed era l’unico essere fantastico che si distingueva dagli altri, in quanto persona in carne ed ossa. Di solito era una donna vecchia piena di rughe, non certo bella da vedersi, vestiva con un abbigliamento trasandato di colore nero e portava sempre sul capo un fazzoletto dello stesso colore, annodato dietro la nuca.
La strega diveniva tale dopo aver fatto bollire in un pentolino tredici particole consacrate ed aveva resistito durante il rito ai lamenti di chi l’ostia rappresentava. Era evitata da tutti; il suo potere si manifestava nel procurare danno alle persone colpendole nel fisico con varie malattie, oppure agli animali, soprattutto mucche alle quali faceva venir meno il latte.
Come antidoto al maleficio bisognava bruciare tutte le cose della persona o bollirle in un paiolo; contro il sortilegio si poteva mettere di traverso la porta una scopa oppure bastava offrire delle cibarie in caso di particolari avvenimenti: si sarebbe in tal modo attirata sull’uscio di casa una donna e la prima che appariva con pentolino era la strega che veniva a liberare il perseguitato dal maleficio.

Il boscon termina in un coltivo, che si apre nel Palù, dalla forma di ferro di cavallo alle cui estremità si trovano le Corti Benedettine. I monaci benedettini giunsero in questi luoghi verso l’ottavo secolo d. C. portando con la religione la loro organizzazione, che si esplicava particolarmente in una intensa attività nel campo sociale (dissodamento e bonifica delle terre, sviluppo di tecniche agrarie ed edilizie). Per prima cosa costruirono un piccolo convento, chiamato Corte Grande, in dipendenza di quello maggiore di S. Felice di Vicenza e lo tennero per vari secoli; la proprietà passò, verso il 155O, dapprima alla nobile famiglia dei Valmarana, poi ai Cita di Padova, ai De Bortoli ed infine nel 1920 ai Targon attuali possidenti. L’antico convento, adattato alle esigenze dei nuovi inquilini, ha subito nel tempo varie manomissioni e storpiature e di esso oggi non resta che un’aggregazione di stanze e corridoi ed il campanile a vela posto nella sommità del tetto; a testimoniare ancora il suo valore artistico rimane la cinquecentesca splendida loggia sovrapposta parzialmente chiusa, con una balaustra in pietra dì ottima fattura che non ha altri eguali nel Vicentino. Dalla cantina si accede, attraverso un pertugio, ad una grotta naturale, la più grande di Brendola (è lunga 85 mt. più le diramazioni), già esplorata negli anni Trenta dal conte Da Schio e poi dal Gruppo Proteo di Vicenza. II suo interno, sensibilmente discendente, contiene una grande quantità di massi caduti dalla volta alcuni dei quali recano traccia di bellissime concrezioni stalattitiche e stalagmitiche rovinate dai visitatori ancor nei secoli passati. Narra la leggenda che la grotta si congiungesse a quella della Guerra di Costozza, situata nella parte opposta dei Berici. Il poeta e romanziere Pace Pasini (Venezia 1583 – Padova 1644) nel 1618 scriveva che una scrofa,smarritasi in una delle tante grotte di Lumignano, vagasse alcuni giorni per sette miglia (circa 12 km.) sotto terra, per uscire poi alla luce del giorno proprio dalla nostra.
I monaci benedettini costruirono anche un piccolo oratorio denominato Corte Piccola, poco lontano dal loro convento, sulle primissime propaggini della Costa di S Vito e lo intitolarono ai loro santi protettori Vito, Modesto e Crescenzia (i primi due erano fratelli mentre l’ultima la loro nutrice e vissero nel terzo secolo d. C.; Vito, siciliano di nascita, già a sette anni era un cristiano convinto e operava dei prodigi). L’imperatore Valeriano fece arrestare i tre per farli abiurare, ma essi continuarono a professare la fede in Cristo, liberati da un angelo si recarono in Lucania. Convocato da Diocleziano, del quale guarì il figlio dall’epilessia, Vìto fu gettato nuovamente in carcere e torturato. Liberato nuovamente da un angelo, tornò in Lucania dove trovò la morte ed il martirio col fratello e la nutrice. Vito è anche conosciuto per aver dato il nome alla corea, una malattia neurologica caratterizzata da involontarie contrazioni muscolari: “il ballo di S. Vito”. E’ protettore dei ballerini ed il suo nome significa “dell’uva”.
Si ha notizia che dopo il Mille l’oratorio era assoggettato alla pieve di S. Felice di Altavilla Vicentina e dipendeva dal “quarterio de domo”, cioè dalla cattedrale di S. Maria Maggiore di Vicenza, attuale Duomo, insieme con S. Michele di Brendola. Il primo documento che ne attesta l’esistenza è del 5 febbraio 1196 e si trova nell’archivio di S. Felice di Vicenza; in esso è nominata anche la Costa di S. Vito e tratta di un certo Mauro, ivi abitante, che ricusava di pagare la “decima” al monastero di S. Felice (la “decima” era una forma di tassazione, abolita solo qualche decennio fa, che gravava sul prodotti della terra, dell’acqua, del bestiame e degli altri animali domestici, dovuta all’autorità ecclesiastica, antica padrona del territorio, appunto nella misura di un decimo del raccolto, della pesca, dei latticini e dell’allevamento).
Passata in proprietà alla nobile famiglia dei Chiarelli, la cappella venne da questi donata, verso il 13OO all’abate del piccolo convento della Corte Grande. Andata in parte distrutta dall’incuria del tempo, dapprima venne restaurata nel 1504 e poi ampliata, come a tutt’oggi si vede, nel 1856. Conteneva nell’altare maggiore una pala del 1600, attribuita alla mano del pittore veronese Cignaroli, raffigurante i santi patroni e che ora si trova nella parrocchiale di S. Vito.
La presenza dei benedettini, che officiavano da sempre nell’antica chiesa a guisa di parrocchiale (si battezzava, aveva un cimitero proprio) durò sino alla fine del 1700, fino a quando la Serenissima Repubblica di Venezia per ordine di Napoleone Bonaparte, soppresse tutti gli ordini religiosi confiscandone le rendite che passarono al Demanio.
Attualmente è di proprietà privata, è stata restaurata esternamente di recente e seppur ridotta a ripostiglio costituisce, col campanile e la canonica, un romantico e suggestivo complesso.
Dinanzi alle Corti Benedettine si estendeva la zona paludosa di Brendola, formata dalle acque degli scaranti e da quelle “perse” dal Fiumicello durante le frequenti rotte, acque trattenute dalla striscia di terreno che congiunge il Vo’ ai Ponticelli di S. Vito, elevata più di due metri rispetto la pianura di S. Valentino a causa dei depositi di materiale alluvionale proveniente dalle esondazioni dei torrenti Alpone / Agno-Guà. Le prime bonifiche vennero iniziate ancor dai Romani, ma furono soprattutto i benedettini a compiere i maggiori lavori con la costruzione delle varie “degore” (fossati di scolo) che fecero emergere le prime ubertose terre coltivabili: nelle mappe del 1500 e 1600 si trovano spesso descritte la degora antica e la degora delli frati (la degora antica è quella che tuttora raccoglie le acque che scendono dalla sorgente Valentini). L’opera di bonifica venne poi portata avanti dalla Comunità di Brendola e dagli altri proprietari, per essere conclusa, in questo secolo dalla famiglia Rossi della Carbonara. Recenti indagini archeologiche di superficie (ricerche in campo sulla base di elaborazioni computerizzate di fotogrammi provenienti da satellite), effettuate dall’équipe del prof. Armando De Guio, ordinario al Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università di Padova, hanno messo in evidenza la comunanza tra il paleo ambiente dell’antica zona umida di Brendola con quella di Fimon, nota a livello mondiale. Molto interessante è stata la scoperta del sito archeologico ai Ponticelli sulla sponda della palude, che dà sostegno alla tesi di costruzioni palafitticole esistenti ai margini della stessa : c’è la probabilità di trovarsi di fronte ad un ricco giacimento inesplorato, suffragata anche dai rinvenimenti di tronchi d’albero scavati a mo’ di piroga e di materiale fittile (andati dispersi) durante 1′ estrazione della torba negli anni 40, che ha dato origine all’attuale laghetto. Verso la fine del 1992 ha avuto notevole risonanza presso gli appassionati il ritrovamento in contrà Molini di S. Valentino all’estremità pedecollinare del Palù, di un bronzetto votivo a Reitia, dea dei Paleoveneti, la cui fotografia si trova alla pagina 85 del libro “Uno sguardo su Brendola” edito a cura della locale Cassa Rurale ed Artigiana nel 1993 ed é custodito momentaneamente da Don Mario Dalla Via. Precedentemente, nello stesso luogo era stato trovato un altro bronzetto raffigurante un guerriero a cavallo andato perduto e la concomitanza con una vicina sorgente fa supporre la presenza in sito di un santuario seppur modesto, dedicato dagli antichi Veneti alla loro dea Reitia, regina delle acque (naturalmente tale ipotesi necessita di riscontro sul campo). Ma chi erano questi nostri antichi progenitori: Paleoveneti? Esiste in merito una corposa bibliografia, ma cerchiamo di sintetizzarne la storia: dalla metà del XII a tutto il X secolo a.C. si afferma nell’alta Italia una cultura sostanzialmente unitaria convenzionalmente definita protovillanoviana in quanto precede quella villanoviane, dalle scoperte avvenute a Villanova, nelle vicinanze di Bologna, oggi unanimemente attribuita agli Etruschi. Essa è caratterizzata dalla pratica pressoché esclusiva del rito funebre dell’incinerazione con deposizione dentro l’urna di oggetti di corredo e da nuove forme e motivi decorativi per i manufatti in terracotta. Nel contempo sulla scena europea si stende l’ombra lunga dei Cavalieri Nomadi, una popolazione eterogenea e bellicosa che utilizzando tecniche da combattimento rivoluzionarie, basate sull’uso della cavalleria, s’impone come classe dominante in
molte regioni del continente tanto che agli inizi del nono secolo la presenza di una frangia di tale popolazione, costituita dai Veneti, è documentata in Normandia, in Prussia, nella Polonia e nelle estreme propaggini dell’Italia Nord-orientale.
Il nome Veneti si ritiene derivi dai Eneti, abitanti della Paflagonia (territorio situato nell’attuale Turchia), stanziatesi dopo la guerra di Troia, forse nelle pianure della Balcania Meridionale ;gli autori greci chiamano questo popolo anche Ouenetoi, da cui Veneti.
Gli antichi Veneti detti oggi Paleoveneti, erano dunque inizialmente tribù di agricoltori provenienti dai territori delle potenti città-stato del Medio Oriente che, sospinti dalla pressione demografica e/o dall’oppressione politica, si riversarono alla ricerca di nuove terre da coltivare e di libertà dapprima nell’Europa Centrale e successivamente nella nostra Regione, formando piccole comunità agricole che producevano un frumento primitivo ed un tipo di ceramica anatolica, detta della Cultura di Fiorano, della quale sono stati trovati numerosi reperti a Ca’ Bissara, tra Pojana Maggiore e Noventa Vicentina.
E’ difficile stabilire con esattezza il momento del loro arrivo; risalgono però a questo periodo sarcofagi scavati in grandi tronchi d’albero o modellati a tale foggia nella terracotta, coevi a quelli rinvenuti nel Lazio nonostante che la cremazione dei defunti rimanesse l’usanza più diffusa fino all’inizio della nostra era.
La cultura paleoveneta assunse cosi una fisionomia autonoma, apportatrice di un modo nuovo di fare agricoltura con la coltivazione più specifica del grano e della vite e con la conservazione dei loro prodotti: 1′ uomo dunque anche nelle nostre terre aveva imparato a guadagnarsi il pane col sudore della fronte.
A giudicare dai costumi, i Paleoveneti dovettero conservare a lungo le abitudini ed il genere di vita frugale acquisiti durante le migrazioni che li portarono nel nostro territorio: le donne, soprattutto, con le gonne corte e a volte con gli stivali danno questa impressione. L’armamento sommario fa pensare che i guerrieri veneti fossero più che altro liberi cittadini intenti alla caccia, alla pesca ed all’agricoltura sintantoché l’acquisizione della ricchezza comunitaria conseguente a tali attività, soggetta pertanto all’ingordigia di altre popolazioni, non ne fece un ruolo specializzato, una nuova classe sociale emergente. I Veneti dapprima popolarono le colline (numerosi sono i reperti delle loro costruzioni risalenti all’Età del Bronzo Medio rinvenuti a Montebello Vicentino e a Brendola nella zona sottostante la chiesa arcipretale dedicata a S. Michele), poi con l’aumentare della popolazione svilupparono numerosi centri di pianura; i corsi d’acqua diventarono le vie più facili di comunicazione cosi assunsero ruoli primari Este e Padova, nate rispettivamente sulle rive dell’Adige e della Brenta, vie che consentivano contatti culturali e commerciali col territorio alpino e con l’Europa Orientale aree di vitale importanza per l’approvvigionamento dei minerali. Si intensificarono le relazioni con le civiltà villanoviane – etrusche da cui i Veneti importavano materie prime (ferro, rame e stagno) oltre che oggetti finiti. In seguito alla notevole crescita demografica, nei centri maggiori i nuclei sparsi di capanne lentamente si aggregarono e gli insediamenti divennero stabili. Attorno agli
abitati le tombe, dapprima poche ed isolate, si infittirono formando vaste necropoli; materiali delle tombe, più o meno ricchi, attestano l’esistenza di diversi stati sociali.
Ne! VI secolo a.C. gli stretti contatti culturali con gli Etruschi portarono al vistoso fenomeno dell’importazione dell’alfabeto col quale i Veneti cominciarono a scrivere la loro lingua, detta dagli studiosi anche venetico.. Le conoscenze attuali di tale lingua provengono esclusivamente dalle iscrizioni ed il deciframento di tale scrittura avvenne in maniera definitiva dopo le varie scoperte di reperti funerari ad Este, sul finire del 1800.
Pressoché nulli sono rinvenimenti del genere nel territorio berico : esiste nel museo civico di Brendola un ciottolo funerario con iscrizione, scoperto da Don Mario Dalla Via nella campagna di Villa del Ferro.
La trasmissione dell’alfabeto da una cultura all’altra (Fenici – Etruschi – Veneti – popoli Nordici) si ritrova nelle rune, composte da 24 segni alfabetici, riportati alla ribalta dalla simbologia militare nel nefasto periodo nazista.
Della mitologia e della religione dei Veneti ben poco si conosce: la divinità a noi più nota è Reitia, dea assai versatile, in particolare delle acque, forse erede delle antiche madri preindoeuropee.
Vari erano i santuari, centri sacri disseminati in punti chiave di traffici e mercati, ubicati in prossimità di fonti o corsi d’acqua. Avendo i Veneti praticato solo modeste attività costruttive, per lo più legate a materiali estremamente deperibili, è comprensibile l’assenza notata in tutti gli scavi di antiche strutture templari. Si può desumere l’ubicazione del tempio dal ritrovamento di numerosi bronzetti, lamine e dischi votivi nello stesso luogo. II processo che segnò il passaggio dei Veneti alla romanità rientra nell’ampio disegno politico che vide la penetrazione e la conquista da parte dei Romani nella Gallia Cisalpina; quando verso il III secolo a.C. Roma iniziò la politica espansionistica verso la pianura padana i Veneti, spinti dal comune interesse antigallico, non ne ostacolarono l’avanzata anzi mantennero un atteggiamento di alleanza anche nel momento in cui Annibale scese in Italia durante la seconda guerra punica.
Così l’amicizia profonda con i Romani, cementata dai vicendevoli aiuti militari e la notevole affinità etnica tra i due popoli (la somiglianza tra l’ idioma venetico e quello latino ne fa testo) fece si che ai Veneti venisse risparmiata l’annessione forzata all’impero Romano dal quale furono assorbiti quasi inavvertitamente verso il II secolo a.C..
L’avvento della potenza romana provocò radicali mutamenti al nostro territorio: le strade permisero la costruzione di grossi centri di potere mancanti nella Venetia e ponti, fortificazioni, palazzi, bonifiche, centuriazioni agrarie cambiarono la fisionomia del territorio, rendendolo quasi simile a quello attuale.
Curiosamente però l’uomo ha continuato ad abitare nei medesimi siti, i carotaggi e gli scavi effettuati hanno riportato alla luce al di sotto delle nostre case in sequenza:
murature medioevali, poi embrici, pesto, monete, ceramiche e lacerti di fondamenta romane, quindi parti di vasellame e punte di frecce paleovenete infine selci neolitiche.

L’alto pioppo – populus alba – albera – sorveglia la strada ed introduce il visitatore nell’ampia aia della Corte Grande Benedettina, ora fattoria Targon; a destra, sotto il tetto a spiovere sorretto da colonne in mattoni rossi, si trovano la stalla – stala – il fienile – teza – ed il portico – Portego – L’odore di stallatico – Iuame – assale le narici e porta alla mente ricordi lontani, fatti di gaia spensieratezza, ma su tutto domina l’allegro rumore dell’acqua che fuoriuscendo da una cannella va a riempire la vasca per l’abbeveraggio: è acqua captata da sorgente, è fresca ferruginosa, disseta e lascia in bocca il sapore della natura.
La parte più elevata del complesso di costruzioni edificato a seguire I’ andamento collinare mostra in tutto il suo vetusto splendore la composita loggia sovrapposta con balaustra e sopra il tetto il piccolo campanile a vela.
Quasi di fronte al cancello parte una cavedagna discendente che, tagliando i coltivi costeggiati da alcuni giovani bagolari e da ornielli unici esemplari rimasti di una alberata finisce col perdersi nello slargo di cà Buso, detta volgarmente Checai del Buso.
Il colore giallo-ocra della casa, restaurata di recente e divenuta seconda dimora, risalta tra il verde dell’erba e le tinte ancora accese dei tardo autunno. Lasciata alle spalle la costruzione il sentiero prosegue attraverso un prato e dopo qualche centinaio di passi incrocia lo scaranto asciutto della sorgente Valentini, per poi inoltrarsi all’ interno del boscon.
II bosco ceduo è coltivato, lo si denota dal sottobosco pulito e dai mucchi di fascine di legno piccolo accatastate in attesa di essere trasportate nella legnaia. Dalle tante ceppaie “filano” verso il cielo i tronchi di carpino, orniello, nocciolo e castagno; il lento incedere di una salamandra pezzata, che compare improvvisamente dinanzi e che si confonde con le foglie secche fa fermare il passo e dona intense emozioni. La leggenda vuole che questo strano anfibio piovesse dal cielo, fosse molto velenoso e passasse attraverso il fuoco senza bruciarsi; le streghe – stroliche o strie – facevano con parti del suo corpo pozioni magiche che servivano per compiere cattivi sortilegi. Qui a marzo il mondo primaverile si esalta nei colori blu dell’anemone e della pervinca, nel tappeto bianco formato dai bucaneve e dai denti di cane nel giallo zolfo delle primule. Il sentiero continua di fianco allo scaranto, dapprima dolcemente, poi per un breve tratto con asprezza, fin dove compaiono i sambuchi neri e lo scolopendrio -scolopendium vulgare -lingua cervina o lingua di cane o lingua dei pozzi – una felce dalla larga foglia lanceolata; dalla primavera all’estate avanzata l’aglietto selvatico fa sentire il suo pungente profumo e vedere il suo bianco e tondo fiore. L’umidore che attanaglia le membra avverte che la fontana Valentini è vicina; infatti é a 127 mt sul livello del mare, poco lontana dalla fontana dell’Orco, in un piccolo slargo sotto il sentiero. Il luogo è suggestivo, pieno dì umori e colori, infonde tranquillità, voglia di riflettere; le tracce lasciate nel terreno lasciano intendere che questo è regno di volpi, ma data la forte umidità anche di salamandre.
Ad un primitivo albio adoperato nel passato per abbeverare il bestiame usato per trasporto del legname, vennero aggiunti altri due lavelli – Iavandari -; tra il 1928 ed 1929 sotto il podestà Giovanni Brendolan da S. Vito vennero fatti a monte della sorgente lavori idraulici per presa d’acqua ad uso civile (vasca di raccolta e relativo intubamento) per rifornire per caduta l’antica Corte Piccola Benedettina ed il lavandaro, posto a circa 15 mt. di dislivello alla Costa di S. Vito, al quale attingevano acqua le 25 famiglie ivi residenti.
Attualmente la fontana Valentini risulta abbandonata dall’incuria dell’ uomo e del tempo, invasa dal muschio e dai detriti e l’acqua non riempie più i due lavatoi perché scivola subito silenziosa fra sassi per perdersi immediatamente nel sottosuolo.

Ci si allontana dalla fontana verso sud-est per il sentiero che sale tra il calcare in disgregazione, trattenuto dalle radici delle piante, e si passa per il tratto di boscaglia incolta dove dagli alberi pendono le “liane” della infestante vitalba e del pungente rovo: ogni tanto ai bordi del sentiero compaiono le minute lanterne aranciate dell’alchechengi e le rosse bacche dell’uva tamina infilate una dopo l’altra, a mo’ di grani di rosario, nel rinsecchito e lungo stelo erbaceo; per terra i ricci aperti ed i gusci di castagna rosicchiati dai ghiri e lo strato di foglie morte rendono soffice l’impatto del piede col suolo.
La luminosità del giorno aumenta quando il viottolo incontra l’asfalto laddove rigogliose robinie tolgono spazio all’altra vegetazione e le piante dello spino di giuda – gleditsia triacanthos – spin del Signore – crescono su un affioramento tufaceo rosso bruno.

SI scende la strada comunale lasciando a destra la sommità del Castegnile circondata da una recinzione: era l’antico “castellaro”, cioè il sito usato dagli uomini del neolitico. Ai lati alcune piante di ulivo hanno i rami piegati dal peso dei tanti frutti ormai maturi.

La via raggiunge la parte alta dell’abitato della Costa di S. Vito ed incontra la fontana alimentata dalla sorgente Valentjni restaurata di recente. Ogni tanto un cartello posto in bella evidenza avverte che l’acqua non è potabile, significativo indice della natura che si ribella alle nefandezze quotidiane dell’uomo.
Quasi di fronte, sulla parete in strada di casa Fracasso, posta nello spazio vuoto lasciato da quattro finestre una nicchia databile intorno al 1850 accoglie la statua di S. Eurosia, opera di pregevole fattura, seppur qualche colore scrostato lascia intravedere l’usura del tempo. Il cammino prosegue rasentando a destra la fontana, per l’ex via Canonica Vecchia- (Canonica Vecia – che la insipienza di qualche amministratore comunale ha voluto mutare in via Adenauer in onore agli acquirenti tedeschi della vecchia parrocchiale.
In breve si giunge ai prati antistanti la Corte Piccola Benedettina delimitati in qualche parte da una siepe di brombiolari. La tappa e’ d’obbligo prima di fare un altro centinaio di passi e concludere la passeggiata: il luogo avvince per l’inconsueta bellezza è un balcone aperto sulla piana di Brendola e sulle dolci colline che la circondano punteggiate dal biancore dei casolari sparsi e sovrastate dall’austera mole della Rocca dei Vescovi, sembra che un pezzo di Toscana sia stato qui trapiantato.
E’ il sorso di benessere che penetra nell’anima ed addolcisce la fatica al termine dì una breve escursione fatta tra silenzio di posti ancora incontaminati.
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