PIAZZOLA

Le case dei Paganin

Da lì in poi, fino agli anni ’50, cominciavano le propaggini della Piazzola.
A destra segnavano il limite della strada le case dei Paganin: Paganin Mosé e Perazzolo Luigia con i quattro figli Arcangelo, Tarsilla, Ulivo e Giovanni; e la madre Giuseppina; Bruzzonato(Paganin) Fioravante con la moglie Gianesin Erminia; all’interno Paganin Angelo e Maria; sposata quest’ultima in Tapparo, madre di Amelia e nonna dei fratelli Bedin: Emilio, Italico, Angelo, Carmela, Mario, Bertilla.
Il blocco degli edifici, che un tempo facevano parte di un’unica proprietà, comprendeva anche l’abitazione di Buffo Ottorino con la moglie Armida; e quella di Adolfo Facchin(Capo) con la moglie Alice Buffo.
Maria Paganin, con il fratello Angelo uno dei capisaldi della contrada, archivio vivente, donna di grande saggezza, profuse a lungo le sue arti di consigliera, mediatrice, giudice di pace…
Quando il buon Dio la chiamò a sé ci fu chi scommise sulle difficoltà di collocarla, lassù in Paradiso.
E’ in questo breve squarcio di contrada che incontriamo il ciabattino Opele, Angelo Lovato e il Calzolaio Buffo Ottorino.
Angelo Opele Di età indefinibile, Angelo Lovato, chiamato Opele faceva il ciabattino. Figlio di artigiani, alcuni sarti, altri barbieri, altri calzolai, non era stato il figlio più fortunato.
Sciancato dalla nascita, gli era toccato in retaggio quel nomignolo, poco benevolo che la cattiveria dei coetanei gli aveva affibbiato gratis.
Ad Angelo, sentirsi chiamare Opele faceva l’effetto di una scudisciata a un mulo; e la reazione non tardava.
Giovane, in famiglia era vissuto all’ombra dei fratelli e si era adattato a fare l’aiuto calzolaio. Poi, morti genitori e rimasto solo, si era arrangiato a fare il ciabattino.
Occupava una stanzetta nella casa di Giuseppina Paganin. L’angusto ambiente ospitava l’uomo, il bischetto, alcune forme e alcune lesine, il piede di ferro.
Angelo lavorava ingrugnito e poco disponibile a qualsiasi conversazione. Sembrava un orso; ma con i nipoti di Giuseppina fu più di un nonno e loro, i quattro figli di Mosé lo ricambiavano di affettuose attenzioni.
La casa venne abitata più tardi da Giuseppe Bisognin e Italia Bertacche. Dopo di loro venne venduta a Graser Nazareno. Attualmente è abitata da Flavio Nascé.
La casa attigua a quella di Giuseppina Paganin era toccata alla cugina Paganin, madre di Ino( Fioravante Bruzzonato). Quest’ultim era conosciuto in contrà come Ino Paganin. Abitava nella casa materna con la moglie Erminia e la figlia Franca.
Ino Paganin – Fioravante Bruzzonato Lavorava come aiuto-mugnaio presso il mulino dei Viale.
La mattina, all’alba partiva con asino e carretto carico di sacchi; destinazione Perarolo, el Cao de là, le Cavecie … Si avviava fischiettando, sempre allegro.


Dentro i sacchi farina di frumento, di mais, crusca e cruschello. A Perarolo Ino conosceva tutti. Lasciava i sacchi di farina e raccoglieva i sacchi di granaglie varie da portare a macinare. Tornava stanco nel pomeriggio, ma il sole doveva ancora tramontare. Strigliava l’asino, lo foraggiava, lo accarezzava. Quindi tornava al mulino. Lì, pesava il carico, lo disponeva presso le macine, riempiva i grossi imbuti di grani; colmava i sacchi accostandone la bocca ai grandi distributori.
Attivo e infaticabile, era l’onestà e la gentilezza in persona.
L’enorme porticato all’interno del cortile Viale-Valdagno, con accesso dal grande portone dei Revese, risuonava della sua voce e dei richiami dei clienti: “Ino, Ino…”.
Quando i Viale ebbero chiusa l’attività, Ino cambiò padroni e andò al mulino Campagnaro: ancora una volta mulo, carretto e sacchi per sentirsi utile, vivere libero e parlare con l’intelligente bestia.
Poi lo prese un gran mal di schiena e andò a fare il mugnaio nel mulino del buon Dio.
Di là dalla Strada acciottolata, dirimpetto alle case Paganin, il marciapiede in marmo rosso di Asiago copriva il Rio Bregolo e lambiva la mura di contenimento della proprietà Chiarello.
A metà della mura, una rientranza ospitava il “mato” di Valle, una pompa a stantuffo con pesca in pozzo artesiano: un dono della valletta tra il Colle Bregolo e il Colle San Marcello.
Era lì che la contrada bassa andava per acqua con secchi e bigolo (arconcello) e litigando proclamava le proprie sante ragioni sui turni dell’approvigionamento estivo.
Poco più in su ecco il lavatoio de la Fontana deta il Pisaroto. Lì accanto un colonnotto in ferro segnava il passaggio delle tubature dell’acquedotto dal Rio Spesse.

El mato
Chi xè pi mato
Del mato de Vale!?
Magro fa on ciodo,
Drito, impirà
El tira su aqua
d’inverno e d’istà.
Le tose le ride:
Lo fa incoconare
El stantufo se rabia
El pompa strozà.
Le vece le scorla
On poco la testa:
De la zoventù
Xé quel che ghe resta.
Ma l’aqua la riva
e le sece inpinà
le parte s-giozando
al bigolo tacà.
El mato no’ parla
El xè mato; e ghe resta.
D’istà el tosise
El perde anca el fià.
Nol pompa pi acqua:
Bisogna zontarghe
Ch’el perde pal caldo
Ogni bona amistà.
De inverno, co’giaza,
deventa on sol toco:
Manego e boca
xè giazo patoco!
Ghe vole on secielo
de aqua scaldà;
poro vecioto
el fa proprio pecà.
Co l’aqua de bojo
el ciapa corajo,
el sbosega on poco
co’ qualche vantajo.
Ma dopo el se mola,
inpina le sece;
e sgorgonando,
al cemento bagnà
dise ridendo, da mato compio:
“Le robe vece
Le vien e le va indrio.
Porté pasiensa, no’ xé novità”
Da qui si era già in Piazzola: a sinistra la Corte dei Ciarei: Chiarello Guido con la moglie Bijeta e i tre figli ,marangoni falegnami da sempre.
I Chiarello dividevano la corte con l’osteria “de Ana Bonata”, l’osteria dei Bertacche. Questi, a loro volta avevano tre figli(Flavia, Giannina e Cesare). Il più giovane Cesarino, faceva il cantante, e ha lasciato un ricordo ricco di simpatia in molta gente di Brendola.
Sull’estrema destra, la casa d’angolo era occupata da Maria e Rino Zerbato
– L’Osteria di Anna Bonata era stata in gestione (e forse di proprietà), un tempo, a Rosa Chiarello e Giacomo, cognati di Maria Chiarello e fratelli di Guido. Questo spiega il nome di Corte dei Ciarei.
Ma la successiva presenza di Anna Cenghialta, in Bertacche, impresse all’ambiente un altro stile di vita: più sereno e allegro; e la corte fu anche chiamata la Corte de Ana Bonata.
Dagli anni ’40 e fino al 1952 la Corte ospitò la giostra delle catene dei Casagrande e fu il centro della Sagra di San Rocco.
Oggi l’intero edificio è ripartito in due proprietà: a sinistra la porzione interna della Famiglia Chiarello e a destra l’abitazione di Pasqua Luigino. Era qui che abitava Felicita Bedin, ved. Pellizzaro, parrucchiera e sarta; una delle donne più allegre e simpatiche della Contrà.
La giostra. Arrivavano in anticipo, sulla data di San Rocco, magari una decina di giorni, i carrozzoni. Erano di solito due: davanti la motrice e il contenitore-rimorchio della struttura; dietro la roulotte , l’abitazione dei giostrai Casagrande.Qualche anno, alla roulotte padronale si accodava una piccola roulotte di Nomadi.
Per i bambini della Contrà era una festa lunga venti giorni.
La messa in sosta, dei veicoli, l’apertura del contenitore con il castello e la struttura della giostra; l’approvigionamento dell’acqua… ogni fatto ogni gesto, ogni evento erano oggetto di interesse per una masnada alta due soldi di cacio e male in arnese.
A seguire la faccenda, ad ogni modo non c’erano solo i tusi: c’erano gli sfaccendati, i clienti delle due osterie della Contrà, qualche mamma in ansia; e la dirimpettaia Maria Chiarello, preoccupata che i nuovi arrivati potessero arrecare qualche danno.
Tempo un paio di giorni e la Corte dell’Anna Bonata si trasformava nel più grandioso parco dei divertimenti che la Contrada potesse sognare: una giostra delle catene, con pannelli istoriati, alzata arcobaleno e bandierina sulla punta, senza tralasciare il grammofono e le luci.
Tutte le sere era festa; tutti i giorni era festa.
Le canzoni, ripetute all’infinito per l’esiguità del repertorio; le novità del Festival di San Remo; e poi le vertigini del volo, tra terra e cielo, a buon prezzo. I sogni di ogni bambino su uno scomodo seggiolino di ferro.
Quando la giostra partiva per altre mete, sulla Piazzola scendeva una grande malinconia, un silenzio da ospedale.
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Dirimpetto all’osteria, ecco la casa “de Maria Ciarela”, un’altra Chiarello, merciaia, fruttivendola, sagrara e venditrice delle più disparate carabattole per grandi piccini.
Il solido edificio a solatio, dotato di abitazione del fattore, stalla, forno e privilegio non comune per il tempo un cesso, un gabinetto in muratura, godeva (e gode tuttora) di un imponente cancello in ferro battuto, sostenuto da pilastri e abbellito da un ippocastano per lato.
La considerevole aia e il ricchissimo brolo completavano il podere.
Era nell’abitazione del fattore che abitò, per un certo tempo Italia Bertacche con il marito Giuseppe Bisognin e tre figli.
Italia era una una donna sempre allegra: cantò e mimò la Canzone dei oto quasi fino alla morte.
Attualmente sul brolo di casa Chiarello sorge la proprietà di Renzo Volpato, con abitazioni, negozio e guardino. La risorgiva che alimentava la Fontana deta el Pisaroto non solo dà ancora acqua, ma permette al Signor Volpato di inaffiare il giardino. La Casa di Maria Chiarello è chiusa: Appartiene ai suoi eredi.
Maria Ciarela
Maria, mercantessa che batteva i mercati e teneva banco di stoffe, lane e merceria, usciva la mattina presto con carro e cavallo.
Il grande cancello si apriva sulla via, quando la stella boara ancora doveva tramontare. Quindi in Contrà arrivava il nitrire del cavallo, seguito subito dopo, da uno sferragliar di ruote: Maria faceva comparsa, in tutto il suo fulgore.
Occhi fessurati, nei viluppi di complicate velature, capo coperto da un gran foulard nero in testa, annodato sotto la gola, un gonnellone mirabolante e due mani ossute e forti: Maria era questo e una testa in perenne lavoro.
Inverno ed estate sedeva a cassetta a guidare la sua bestia con maestria: il cavallo sembrava andasse quasi da solo.
La Donna tornava nel pomeriggio, stanca morta, apparentemente incurante dell’invidia mal celata degli abitanti della Piazzola. D’altronde la sua lingua alquanto sciolta e talvolta tagliente era arcinota in Contrada.
Negli anni ’50, ormai divenuta “casalinga” usciva in calesse e ombrellino, durante i pomeriggi estivi. A cassetta, per attirare l’attenzione apostrofava i passanti e ridendo diceva: “La sagra!…Oncò se fa sagra ! Vardé qua…se soleja le vece!”
Il negozio di generi alimentari si apriva proprio a metà Piazzola, sulla sinistra. Era la bottega di Jio Sigola e della moglie Adele Campagnaro: oltre ai generi alimentari, vi vendevano oggetti di cartoleria e casalinghi.
Più in là l’osteria dei “Balsemin” di Capitanio Emilio e adele Tamion; un locale che aveva cambiato più volte padrone: prima dei Capitanio, avevano gestito l’osteria Ernesto Peretti che suonava il violino e Gijo Peretti suo fratello.
Al Piano superiore, su dalla scalinata interna abitavano Bijo Consolaro (Luigi) e sua moglie Rosa Biasi. Luigi era l’ombrellaio della Contrà.
Il complesso, antico, comprendeva non solo l’osteria, ma un bel cortile con pozzo, gabinetto in cotto e gioco da bocce.
Le angurie
Le angurie d’oggi non hanno più il sapore di quelle di una volta. Oggi puoi comprare cocomeri succosi al mercato, al supermercato, al negozio sotto casa… dappertutto.
Sono grandi, enormi; dolci e profumati; e tuttavia privi di quelle peculiarità che facevano del frutto un bene inestimabile, l’oggetto dei desideri dell’estate.
Comparivano a luglio, nelle prime ore del pomeriggio, con la canicola, sotto l’occhio vigile di Maria Ciarela o di Vittorio Gavajon (Vittorio Cavaggion), all’angolo della casa dei Zerbato (oggi Pasqua), proprio dietro el barbacan (una pietra posta agli angoli delle Chiese).
Maria ammucchiava a piramide i frutti rotondi, poco meno di un pallone con la buccia verde scuro; sedeva e aspettava.
Poco dopo la Piazzola si animava. Come mosche i bambini della Contrà, giravano lì intorno, vogliosi di anguria: non c’erano gelati a quel tempo a far concorrenza.
Più il sole picchiava, più il commercio era animato: ma si trattava di affari…onesti: prima di intascare i soldi, Maria praticava un tassello al frutto: lei vendeva solo cocomeri garantiti.
Quelle angurie! Desiderate, gustate con il pensiero prima che con la bocca; assaporate a piccoli pezzi per far durare a lungo la delizia, ridotte a scodella per contenere il pane biscotto, succhiate e raccolte fino all’ultima goccia di sugo… erano l’essenza dell’estate.
Senza contare che, spesso, costituivano merenda e cena insieme.
Villa Anguissola In Villa Anguissola abitava, fino ai primi anni ’50 , la Famiglia Fabris. Era la casa delle “padelle” . La grande Famiglia vantava molti membri e la bravissima Nella (Maddalena) Fabris, nata Stella, sapeva cucinare.
La stalla ospitava molti bovini: vacche da latte e buoi per il tiro dei carri o dell’aratro.
Dietro la villa, dalla parte del pozzo, abitavano le “Agnolette” (Irene ed Elisa Pilastro), madre e figlia che fornivano la città di piccoli servizi, come rammendo di indumenti e cucina saltuaria: erano ottime cuoche.
Una cucina per tanti. La cucina dei Fabris: una grande stanza, dominata da un lungo tavolo e da un enorme camino. Il camino era nero e perennemente acceso, tranne che in estate, quando il fuoco faceva la sua comparsa solo per cucinare.
La parete di destra era tappezzata di “rami” lucidi, quella opposta ospitava una miriade di sedie.
Rivedo quella stanza, nelle mattine di maggio, quando andavo a chiamare Elisa, mia coetanea, per la Messa e il catechismo, prima della scuola.
Faceva freddo alle 6 e 30.
Ma la cucina offriva uno strano e confortevole tepore.
Sulla brace del camino un graticola di dimensioni più che rispettabili, sosteneva un numero impressionante di fette di polenta messe ad abbrusolire. Sulla tavola un piatto di salame a fette sottili e adagiate, le une sulle altre; seduti, i tre padroni di casa, Gioacchino, Francesco e Giuseppe; un po’ discosti e in piedi gli uomini a giornata, tre o quattro, a seconda dei lavori nei campi.
Consumavano polenta e salame, bevevano graspia: mangiavano i padroni, per la consuetudine della colazione; mangiavano i braccianti pressoché digiuni da molte ore: senza quel cibo non sarebbero stati in grado di lavorare.
Sulla pietra del camino, Anna raccoglieva le fette di polenta e le passava agli uomini: l’umile Anna, regina del focolare.
All’interno della grande Corte, il lungo edificio, con funzione di foresteria, che fiancheggiava e fiancheggia la strada, era suddiviso in: pollaio, cantina, abitazione di Faccin Maria, abitazione del Daziere. La parte iniziale, con apertura verso Via Valle, ecco lo spaccio latte e il laboratorio di Ulisse Lovato, sarto e barbiere.
Oggi vi abita l’architetto Munari.
Sull’angolo dell’edificio, sul lato prospiciente la Piazzola, in alto, una tisica lampadina illuminava il campo e permetteva di leggere, anche di notte, la scritta di propaganda fascista. La facciata dell’osteria e del negozio dei Campagnaro, assumevano, a quel bagliore un’aria bigia-bigia e malinconica.
Nella corte di Maria Chiarello, la casa del fattore era occupata da Italia Bertacche, sorella di Momi e moglie di Giuseppe Bisognin.
Italia era una donna sempre allegra, sempre indaffarata e disponibile verso i figli.
L’acqua in contrà. Fino ai primi anni ’50 Via Valle tribolava, in estate, per l’acqua. L’acqua dei pozzi si abbassava di livello; il mato di Valle, pompava a singhiozzo e i rubinetti pubblici serviti dall’acquedotto delle Spesse, non erano in funzione in contrà.(servivano: uno la corte dei Valdagno e zona limitrofa; l’altro serviva Revese).
Ma anche tutto il paese boccheggiava, così gli amministratori concepirono il progetto di un acquedotto per tutta Brendola.
Nelle varie Contrade, quindi, fecero la loro comparsa i lavandari. Quello di Valle stava poco più in su dell’Osteria di Balsemin, l’attuale Pizzeria, prima del ponte sul Rio Spesse.
Diviso in tre vasche: la prima un rettangolo stretto e lungo, per il beveraggio degli animali; la seconda grande e quadrata, munita su due lati di lavello; l’ultima, ancora stretta e rettangolare, per il decanto delle acque sporche.L’acqua di scarico finiva nel Rio.
Le donne vi facevano un allegro salotto: secchi che andavano e venivano; baruffe per il posto al lavello; commenti più o meno rusposi sulla vita della Via. Si viveva in Piazza.
Quasi superfluo dire che l’arrivo dell’acqua fornita dall’acquedotto decretò la scomparsa del Mato de Vale. (Il lavandaro, a sua volta sparì verso gli anni 70 con l’arrivo della lavatrice)