Via Dante
Cominciava al Cerro proprio lì, sulla strada incassata, compresa tra Villa Bisognin e la mura di sostegno di Piazza Marconi. La Strada, dopo una cinquantina di metri si biforcava e si biforca: a destra la strada per il Cimitero (Strada del Simiterio); a sinistra la carreggiata si faceva lunga, tortuosa e bianca a mezza collina, superava sulla manca Casa Rodighiero-Frigo e, dopo una curva a gomito, raggiungeva Ca’ Brusà.
La chiamavamo: la Strada per “El Cao de là” e, come tale, ancor oggi conserva il suo nome.
L’inizio, in discesa, esibiva l’acciottolato in basalto, propaggine della pavimentazione di Piazza Marconi; ma percorsi pochi metri, ecco la strada bianca, tenuta a “mastego”, un ghiaione figlio del calcare bianco dei Berici. A destra, prima del grande arco barocco a bugne, l’osteria Maran invitava i passanti ad entrare.
Era molto conosciuto il locale, anche come ambiente di riferimento per gli avvenimenti privati e pubblici del Capoluogo. Di fronte all’osteria, di là dalla stradina, si stagliava una scaletta di risalita al piazzale e una fontanella ad arco. Vi sgorgava l’acqua dell’acquedotto Piovene.
Oggi. La fontanella non c’è più. Resta il profilo della semicupola, un arco a tutto sesto, murato.
Dopo l’osteria, sotto il grande portico, con accesso dal grande arco a bugne, ecco l’abitazione della famiglia Maran, gestori dell’osteria; l’abitazione di Gaetano Bisognin e quella di Antonio Pezzelato detto Toni Recoaro, un gigante buono e rumoroso. Antonio Pezzelato, era sposato con Giulia Storti e Gaetano Bisognin con Pompilia Storti, sorella di Giulia. Toni, Giulia e Pompilia venivano da Recoaro. Coltivavano la splendida terra che dal Cerro scende fino al Cimitero; terra creta, buona per viti e piante da frutto; e si occupavano della stalla dove tenevano numerosi bovini, da traino e da latte. Renato Bisognin, figlio di Gaetano, tornato dall’Australia sposa Adele Gianello. Adele è figlia di Antonio Gianello e Caterina Cunico. I Gianello facevano un po’ di tutto: lavoravano la terra dei Balbo, quella di Bepi Balbo e Catina Paganin (mamma di Vittorio, Bepi, Amelia, Leopoldo) alla Cà Brusà. Impagliavano anche sedie, raccoglievano legna.
“Storia di famiglia” Bisognin Gaetano
“Storia di famiglia” Gianello Luigi e Cunico Giuseppe
Sul terreno attiguo a quello dei Bisognin, in Via Carbonara, nella piccola casa che resiste tuttora alle intemperie, abitava Andriolo Antonio, fratello di Angelo Andriolo, proprietari dell’Osteria a Revese, oggi “Ristorante al Fogolare”.
Oggi. Chiusa la stalla, i discendenti di Antonio Pizzolato e Gaetano Bisognin coltivano ancora i campi, ma, accanto all’attività agricola, curano altri interessi. La terra resta la stessa, amata e coccolata. Accanto alle abitazioni antiche, sono sorte villette di moderna concezione.
Dopo il complesso Bisognin, fino agli anni ’50, a chi scendeva verso il Cao de Là, si apriva solamente una distesa di campi, adagiati dolcemente a coprire una conca verdissima. Al bivio, spartito tra la strada del cimitero e quella per San Valentino, stava un “lavandaro” o lavello a due vasche. Era il lavatoio della gente del Cerro, troppo lontana dal fiume. La cannula sgorgava notte e giorno un getto d’acqua freschissima: era l’acqua dell’acquedotto Piovene.
Oggi. Il manufatto, andato in disuso per l’arrivo dell’acquedotto centrale, e ridotto in cattivo stato, venne demolito da Albano Menotti Rigolon, che lì aveva acquistato il terreno e vi ha costruito la casa.
Si scendeva lungo la strada tortuosa, in discesa mostrava cigli erbosi e cunette chiaccherine in primavera e polverose in estate. A sinistra, dopo circa trecento metri, alta sulla via che protendeva alla prima curva, ecco l’abitazione solitaria di Piero Rodighiero (Piero Pincia) e del fratello Angelo (marito di Teresina); lì, l’uomo teneva una piccola fabbrica di blocchi in cemento. Vi abitavano dal 1929. Prima, i due fratelli avevano abitato in una casetta dietro Villa Stefani, oggi Castegnaro, in Via Roma.
“Storia di famiglia” Rodighiero
Oggi. Via Dante si presenta strada di congiungimento tra la realtà dei neo-quartieri di Brendola-Ovest, sorti in pianura dagli anni ’70 e, attraverso il nucleo del Cerro, la realtà quasi intatta e affascinante di San Valentino: un mondo agricolo, dove le modernità sono state assunte con parsimonia, nel rispetto dell’ambiente e della sua gente. Ma il primo tratto della strada, fino ed oltre casa Frigo, ha subito la malia della modernità, del costruire secondo canoni attuali: edifici decorosi, che tuttavia faticano ad armonizzare con il contesto naturale in cui sono stati incastonati.
Più avanti, dove la strada, seguendo il protuberare del colle, piega a gomito verso Nord-Est, sul lato destro, a coronamento di un immenso manto di campi a vigneto, sorgeva la casa della famiglia Parlato detto Loica “Ca’ Brusà”. I Loica lavoravano la terra dei Balbo della Chiesa: la bella terra che dalla strada scende verso il cimitero.
Volgendo al colle, la terra che oggi ospita le case Martinello, terra dei Balbo, invece, era lavorata da una famiglia Paganin: mamma Catina con Vittorio, Bepi, Amelia e Leopoldo.
La Ca’ Brusà, successivamente, è passata a Bisognin Leonardo (Lino), padre di Silvano, Angelo, Annalisa e Germano. I campi sottostanti, arati, rendono spesso bossoli di proiettili della seconda guerra mondiale. Negli anni ’60, sulla sinistra ha costruito Martinello, tornato dalla Svizzera. Qualche decina di metri oltre, in un edificio relativamente recente, abita Renato Maran. E’ l’edificio risorto dalle ceneri della famosa Ca’ Brusà, che dava e dà il nome al sito.
La Colombara
Proseguendo oltre Cà Brusà si giunge al complesso della Colombara.
Il complesso di case si apre verso l’interno, con le porte a solatio, le aie e gli annessi rustici. La prima casa a destra, con fattoria, comunque, gode di indipendenza: la separa dalle altre una strada vicinale. Si tratta di una carrareccia che, aprendosi perpendicolarmente alla strada, si inoltra verso I campi, dove, a 50 metri dalla via principale, sgorga l’acqua della fontana della Colombara.
Lì attingevano alcune famiglie del posto e gli agricoltori per innaffiare le colture dell’orto. Apparteneva a Ferruccio Marzari.
“Storia di famiglia” Bisognin Angelo
Il complesso di case che seguiva (e che tuttora segue), costituiva una lunga teoria di edifici con finestre inferriate sulla strada, facciata ed ingresso interni, a solatio. La prima abitazione era la fattoria dei Refosco con ingresso e cortile privati. L’accesso era sulla stradina sterrata, appena nominata. Refosco Girolamo l’aveva erditata dal padre. Sposa Angela Savegnago. Hanno quattro figli: Francesco, Armando, Dino e Angelina. Se ne andarono dalla casa verso gli anni ’60.
Per accedere alle abitazioni successive è necessario proseguire per una trentina di metri e girare a destra. Qui si apre una grande corte: la corte dei Maran detti Tatin. All’interno Giovanni Molon possedeva una casa. Giovanni Bisognin va ad abitare la casa bella alla Colombara. Giovanni, dopo sposato abita dapprima da Tiberio Frigo (suocero: vicino a Menon Tranquillo, Danilo). Successivamente si sposta nella fattoria che è oggi di Domenico Bisognin. Compra quindi la casa che era dei Sambugaro “calzolai”, sempre alla Colombara.
Quando lui muore, i figli vendono la casa alla famiglia Cardullo.
L’agglomerato della Colombara rappresentava un punto di riferimento importante, sia per gli abitanti che ne costituivano il tessuto sociale, sia per le attività che vi si esercitavano. Fungeva, il complesso, quasi da ponte tra la realtà più complessa di Brendola Capoluogo e le contrade disperse sulle colline incombenti sulla Conca.
Proprietà della Famiglia Pillon, nel 1800, la presenza abitativa era costituita da poche unità: la casa centrale (quella abitata poi dai Sambugaro e oggi proprietà Cardullo), affiancata sulla sinistra da un arco di accesso alla corte interna e da un altro edificio, affiancato all’arco, la cui funzione non risulta dalle mappe.
L’arco stesso, completamente inglobato nell’attuale teoria di case, trova testimonianza solo nei racconti tramandati oralmente dai vecchi proprietari.
Ora, depositario ne è il figlio Gabriele Pillon.
La Corte
La Corte della Colombara detta anche dei Tatin, viveva negli anni tra il 1900 e il 1960 circa, di vita propria. Il forno di Buso, il continuo viavai di gente per il pane, la vita dei campi scandita dalla luce del giorno, gli animali da alimentare, il latte da distribuire, il profumo del grano, del sorgo e dell’uva; il pane e il vino, l’acqua del pozzo e poi le sere fatte di intese antiche, di complicità e collaborazione: un microcosmo dove non mancava nulla; meno che meno la stima e il rispetto reciproci.
Il nome e la tipologia delle case stanno a indicare proprietari benestanti, ricchezza di beni e attività non solo legate alla terra. Bella la casa centrale, allineata con le altre, ma illeggiadrita da ingresso ad arco con chiave di volta e paraste in pietra lavorata. Bello anche il balcone, alto e aggettante sulla corte, quasi a esprimere una volontà o una esigenza di controllo.
Le altre abitazioni rispettano la tipologia rurale del luogo.
Sequenza delle costruzioni e abitazioni:
• Portico dei Refosco
• Casa Refosco con ingresso indipendente su strada vicinale;
• Stalla dei Refosco;
• Casa dei Lazzari (detti Quaioto)(ingresso dalla Corte)
• Casa Borin
• Casa dei Sambugaro
• Forno di Buso
• Casa dei Genitori di Francesco Dani: Giò Batta Dani e Regina Caldonazzo
Ieri. Nell’abitazione in fondo al cortile abitavano I “Quaioto”, i Lazzari: Rosa, nonna di Ludovico Lazzari.
Oggi. Vi abitano Marisa Magnabosco che aveva sposato Francesco ed è la mamma di Ludovico (ha anche una figlia).
Accanto ecco la casa più bella, quella di Sambugaro Enrico con la moglie Rosa Tovo.
Faceva il calzolaio, avevano 5 figli: Domenico, Ennio, Michele, Agnese e Daniela.
I Sambugaro Vissero a lungo alla Colombara; poi si trasferirono prima al Cerro e quindi a Revese. Domenico ed Ennio esercitavano l’attività di calzolaio ed erano detti scarpariti. Ora Domenico vende scarpe nel negozio di Piazza del Mercato.
“Storia di famiglia” Sambugaro Cristiano
Quando i Sambugaro fratelli vendettero la casa, l’edificio venne acquistato da Giovanni Bisognin.
“El Forno” Seguiva quindi la Casa centrale, dove Angelo Fracasso, detto Buso esercitava il suo mestiere di fornaio e cuoceva il pan biscotto più “scauliego” che i Brendolani potessero desiderare. Viveva solo e insegnò il mestiere a Francesco Dani, figlio di GiòBatta detto Titta Sansugaro. Quando Buso passò a miglior vita, aveva pronto il suo erede: Francesco Dani, Checo fornaro , detto anche Checco Sansugaro, il suo allievo. Francesco ha due figlie: Linda e Franca. Francesco Dani aveva anche sorelle e fratelli: Adele Dani, Adele Sansugaro che sposò Angelo Rigolon (fratello di Luciano che abita a Revese) e Angelin Canela che abita in Via Ortigara; Anna, Fernanda, Giovanna, Mario, che va a Milano e poi a Valdagno, Clara, Angelina che sposa Bedin Domenico Meneghetto Baghera.
“Storia di famiglia” Dani Giovanbattista
Attigua alla casa di Buso, ecco la casa dei Maran.
La famiglia Maran detti Tatin arrivò a Brendola nel 1931.
“Storia di famiglia” Maran Oreste (Tatini)
Ne era capostipite Andrea, nato in località Scarpeta a San Gottardo.
L’abitazione dove presero dimora fu testimone dell’eccidio di tre partigiani, il 12 luglio 1944.
Al centro del cortile sorgeva, inoltre, una piccola casa, chiamata “casa dei polastrari”.
Terminata la teoria di case, apre una stradina, perpendicolarmente alla strada principale.
Conduce in mezzo ai campi, dove sorgeva l’abitazione di Forestieri Angelo, detto Calistopoli con il figlio Evaristo Guaristo, che aveva sposato Antonia.
Possedeva alcune pecore e faceva il pastore. Angelo vendette la propria casa ai Franchetti. In fondo alla stradina, in mezzo ai campi, ecco la casa di Tamiozzo Giuseppe. L’uomo in tarda età sposò Letizia Maran e ne ebbe una figlia.
Oggi. La corte dei Tatin, alla Colombara, conserva ancora molto del fascino di un tempo. Ne sono artefici la rispettata tipologia degli edifici, la sequenza delle case, la presenza di annessi un tempo pollai; oggi garage, legnaie, ricoveri ad uso diverso. Ne sono garanti le persone, alcune diverse da un tempo, ma ben inserite nel contesto. Peccato che forno e osteria non ci siano più. In epoca relativamente recente, al forno di Buso si avvicendarono alcuni membri della Famiglia Castegnaro che cossero ottimo pane per molto tempo, alla Colombara.
Un poco più avanti, sulla destra, ecco la casa di Bepi Forza che costruisce l’ edificio sulla terra acquistata da Felice, Ice Acco.
Giuseppe Forza, fratello di Renato, abitava vicino a Balbo Basilio, alla Priara. Per farsi la casa andava a prendere le pietre su alla cava e le portava giù con il mulo. Ereditò la casa la figlia Rita, che sposò Rossato.
La strada, oggi Via Dante, si chiamava un tempo Via San Valentino, come si evince da una targa arrugginita, ancora lì, dove un tempo c’era il forno, a testimonianza.
Proseguendo lungo via Dante, sulla sinistra, sorge la grande e bella “boaria” della famiglia Zaccaria. Limitata dal fosso che ha origine nella fontana Castegnaro, la vecchia boaria venne condotta per molti anni dalla famiglia Cazzanello. Erano due fratelli con le rispettive famiglie; uno si chiamava Gino.
I Cazzanello Gente rotta alla fatica, mite e laboriosa.
“Storia di famiglia” Cazzanello Gino
La casa colonica dei Cazzanello era un punto di riferimento per chi scendeva dalla collina, sia che si provenisse dal Cerro, sia che si scendesse da Via Ortigara già Via Guarenti. La bella stalla, con il grande fienile, limitata e racchiusa dalle abitazioni di due fratelli: una in capo e una in fondo! Davanti si stendeva un cortile immenso, spesso cosparso di paglia, dove razzolavano grosse galline, qualche gallo, germani e oche.
I due fratelli, al lavoro, non avevano né tempo, né voglia di perdersi in chiacchiere: lavoravano dalla mattina alla sera dentro quell’aia che sembrava un luogo fatato, lontano dall’esperienza di molti bambini. Tutto sembrava compiersi come per incanto, senza fatica.
Pecore in villa
Buffa la storia, maestra di ironia. La bella Villa Piovene, oggi Municipio, vanta un restauro abbastanza recente (1987). Ma, attraverso il tempo, il bell’edificio, dall’elegante doppia loggia, aveva registrato vari interventi; uno dei quali, negli anni ’30 le aveva concesso l’onore di diventare “l’albergo della Villa”, la casa del Comune. Davanti a un elemento così rappresentativo, (antico di circa 600 anni), ai primi del ‘900, avevano sostato e bivaccato le pecore. Era successo che, in montagna, la vita si era fatta durissima. I Graser, pastori dall’Altipiano, come tanta gente del luogo, erano migrati in pianura. Per alloggiare la numerosa famiglia, il Capo aveva affittato Villa Bisognin, poi osteria dei Maran e il gregge si era accomodato un pò dovunque, qui e là, in Piazza e giù per la strada del Cimitero, sotto il nobile porticato e lungo i cigli erbosi; davanti a Villa Cita e all’ombra della mura di contenimento dei Beni Revese. Per Brendola fu un avvenimento biblico, ma anche una conferma che la gente stava male dovunque. Poi scoppiò la Prima Guerra Mondiale e i Graser rimasero: lassù non potevano più tornare.
Renata Bisognin
Renata, ragazzina un pò petulante, ma graziosa; Renata la simpatia di suor Giordana e Suor Deo Gratias, la voce robusta del coro di bambini, l’animatrice di giochi. Andava a scuola; ma nei pomeriggi era sempre lì, nel grande cortile della Scuola Materna. D’estate compariva con il ghiaccio, la grattugia e lo sciroppo alla menta: preparava l’amarena.
L’ostetrica
L’ostetrica comunale si chiamava Linda, sposata ad Oreste Maran. Scrupolosa assistente alle nascite del paese dagli anni ‘30 agli anni ’50: più di un ventennio. Linda, un donnino magro, alto meno di un metro e mezzo, viaggiava in bicicletta, a piedi, e, negli ultimi anni, su un magico motorino. Visitava le gestanti, consigliava le partorienti, le consolava; garantiva con la sua sola presenza una grande serenità. Allora si partoriva in casa e i bambini, proprio come oggi, non avevano molto rispetto per gli orari. Linda era dolce e al tempo stesso decisa. Alla fine del “processo”, mentre il neo-nato si godeva il tepore del letto materno e la neo-mamma riposava, Linda si sedeva immancabilmente a tavola. Mangiava quel che arrivava: pane e salame, oppure polenta e verdura cotta; non vantava pretese.
Gemma Pacagnela
Gemma aveva sposato Bruno Nicolato e con il marito e la cognata Pulcheria gestiva l’osteria con telefono pubblico in fondo alla Piazza, dietro la Farmacia, al Cerro. Era lei che si occupava del bucato della famiglia. Un giorno d’estate, mentre uscivo dalla scuola Materna di Villa Cita, la vidi scendere dalle scalette sotto il Monumento, con due secchi colmi di biancheria. Era una donna dolce, anche nell’incedere. Sembrava non andasse a lavare, tanto il portamento era eretto e armonioso. La vidi avanzare lungo la strada in discesa, giungere al lavatoio e lì accingersi al lavoro. L’ultima visione, prima che qualcuno mi strattonasse, era di lei, con le braccia alte, un indumento bianco tra le mani e il sole che l’avvolgeva interamente, tra schizzi d’acqua.
Lungo la strada, una “incantata” casa
Scendeva la strada bianca, lungo siepi di tamaro, villucchio e pruno. In primavera era una interminabile scia umida, fiancheggiata da ruscelli e cigli erbosi. C’era tanto profumo di viole su quei cigli, grande luccichio dei gialli favagelli, interminabile oro di tarassachi; e il silenzio aveva la limpidezza dell’acqua. La strada proseguiva, segnata a monte, sulla sinistra, da una mura in basalto, a secco. Si imponeva sul biancore della rotabile, la misteriosa presenza del sovrastante parco di Villa Piovene, alto, ma incombente e inaccessibile. A destra una siepe vigorosa di sarmenti occludeva la vista del Palù.
Dopo qualche centinaio di metri, sulla sinistra, sopraelevata dalla strada, ecco casa Rodighiero, una casa rurale,in pietra bianca, secondo le usanze del luogo, doppia, con primo piano e granaio. Di quella casa, che riattata esiste tuttora, risultava importante il cortile, ombreggiato da un grosso moro potato a capitozza, aggettante e svettante di enormi polloni per la foglia. Era lì che Lucia Frigo si affacciava a scambiare qualche parola con i passanti; e lì, in primavera, guardava fiorire quei garofanini rosa, chiamati “speranzine” oggidì scomparsi dai giardini.
Claudia ed Erminia Rodighiero
Quando la scuola materna si chiamava Asilo Infantile e a gestirlo erano le Suore; quando i bambini vestivano in grembiuli a quadretti bianchi e rossi o bianchi e blu, e in mezzo al cortile dell’ex-Villa Cita restava un albicocco frondoso (armelinaro), unica testimonianza del frutteto Cita; quando la gente della mia età si accontentava della “lira” come completamento del pranzo; allora al Cerro vivevano due Bambine, bionde e ricciolute, bianche e rosse di viso, aggraziate nei movimenti e brave, bravissime a cantare. Claudia era il sostegno del coro infantile. Suor Ermellina all’armonium sfiorava un tasto e poi guardava Claudia. A dirigere era Suor Deo Gratias. Ma noi bambini guardavamo Claudia e tentavamo, tentavamo di seguirla nelle note alte, in sforzi quasi sempre inutili. Claudia, con la sua voce da usignolo, saliva, saliva, senza apparente sforzo. Quando il coro taceva, restava nell’aria l’eco.
E quando la famiglia Rodighiero partì per Milano, l’eco restò nel cortile della Scuola.
I Borin
Nella prima casa a destra, della Colombara vi abitava la famiglia Borin.
Borin Domenico (proveniente da Meledo) e la moglie Pizzato Lucia, detti Tripoli. Avevano stipulato, con i Marzari, un contratto d’affitto.
In famiglia erano presenti anche altri due fratelli di Domenico: Piero, un tipo giramondo e Italo: da sposare, davano una mano nei campi. Abitavano dopo i Lazzari.
Domenico e Lucia avevano quattro figlie:Caterina che sposa Alessandro Cielo, la cui casa era in Via Maraschion, oggi Via Isonzo, ( oggi nella stessa casa abita Aldo Bertocco). Figli: Luigino, Giorgio, Sergio, Lena, Regina.
La famiglia si era trasferita poi in Via Revese (anni ‘50) e successivamente ad Alte. (Luigi Cielo sposa la maestra Maria Frealdo. Abitano a Brendola in Via Monte Grappa). Regina che sposa Silvio Bisognin . Non hanno figli.
Arpalice, detta Pace, che sposa Francesco Dani detto Sansugaro.
Figlie: Linda( che sposa un Rigolon)
Franca
Linda, chiamata Maria che sposa Mariano Bisognin, fratello di Silvio Bisognin.
Figli: Domenico sposato a Cinzia Maran (figlia : Sofia)
Lucia
Successivamente i Borin si spostano all’Orna dove hanno 8 campi (l’attuale proprietà Mendo).
Ai Borin subentra Giovanni, Nanni Bisognin, come fittavolo di Ferruccio Marzari; finché nel 1961, morti i genitori, le quattro sorelle Tripoli vendono i campi al Sig. Mendo.
Con il denaro dell’eredità, due di loro, Maria, sposata a Mariano e Regina, sposata a Silvio Bisognin, acquistano “el logo de Ferruccio Marzari” alla Colombara e tornano ad abitare nella fattoria dell’infanzia.
Quando muore Silvio eredita Regina; alla morte di Mariano ereditano in parti uguali Maria (mamma di Domenico e Lucia), Domenico e Lucia. Lucia rinuncia all’eredità. Quando muore la zia Regina, eredita Domenico (che comunque dà alla sorella il valore in denaro di un campo e mezzo).
Nanni Bisognin è figlio di: Felice Bisognin e Frigo Angela.
Osteria
Era il regno di Mima Tapparo, una zia di Alvaro che abita alla Chiesa. Il mestiere era tradizione di famiglia, come la ristorazione: cibi umili quali la trippa, la coratella (polmone), il pane e la soppressa; e poi il vino genuino del Cao de là. Mima, tondetta e di media statura, serviva con competenza la propria clientela. Il sorriso accattivante attirava i clienti, il profumo e la fama della trippa andava ben oltre il sito della Colombara. Poi gli anni la misero a riposo la gentile “ostessa” e l’osteria vivacchiò ancora per poco; quindi venne chiusa.
Vittorio Maran
Un uomo del nostro passato, alto, diritto, di scarse parole, giusto ciò che serviva; e poi i campi, sudati campi, dissodati e accarezzati, lavorati secondo gli usi appresi dal padre Andrea. La sera, attorno al desco della cena, preparata in prima serata come d’uso nelle famiglie contadine, riuniva i quattro figli piccoli, mentre la moglie Armida serviva in silenzio. Poi successe che la moglie se la prese il Buon Dio e Vittorio, chinato il capo, accettò di risposarsi per dare una madre ai figli. Fu fortunato: incontrò una donna di grande pazienza e umiltà. Ricambiò la seconda moglie d’affetto e di gratitudine, con la sua dignità di uomo dei campi; e se ne andò con il medesimo stile: in silenzio, senza dare disturbo.
Vestigia di guerra
Due sono i siti che risultarono particolarmente significativi, durante la Seconda Guerra Mondiale, e che risultano ancora tali nella memoria degli abitanti di San Valentino: il primo è la casa dei Maran detti Tatin alla Colombara, per la rappresaglia del 12 luglio 1944; l’altro è la Priara con le sue Grotte , dove, nel 1945, con i tedeschi in ritirata, si rifugiò una parte considerevole della popolazione.
Giuseppe Forza
Brava bestia, il mulo! Forte e resistente alla fatica, era quello che ci voleva per vincere l’erta salita che, dal Capitello dei Barcaro, s’inerpicava su, su fino alle Grotte e da lì fino alla Priara. Si trattava, comunque, della strada meno difficile; quella per i Mulini e il Maraschion era più dura, più impervia, anche se più breve. Giuseppe alternava le due strade carraie bianche, a seconda dell’estro, della necessità e del carico. La salita era facile. Il carro vuoto saliva, cigolando; sembrava volare per la collina. Ma il ritorno era un’impresa. Il veicolo, carico di pietra bianca della cava, tendeva a scivolare per la discesa e a battere sulle terga del mulo. Giuseppe azionava i freni, diventava freno egli stesso, aiutava la bestia, l’ ammansiva. Nelle curve, poi, il veicolo doveva rallentare ulteriormente: le pietre rischiavano di rotolare. Una Fatica con la “F” maiuscola! Quella casa che sorse in Via Dante a San Valentino, verso il crocicchio, risultò dalla pazienza di un uomo e dalla testardaggine di un mulo.